Italo Nobile
In piena tempesta del coronavirus, quando la questione all’ordine del giorno è quella della pianificazione, il testo di Luciano Vasapollo, edito da Efesto Edizioni, è un ottimo punto di partenza per problematizzare ed approfondire questo concetto.
Introduzione
Nell’introduzione Luciano Vasapollo dice che il libro si sarebbe potuto chiamare “Sfide e prospettive della transizione socialista a partire da Nuestra America” e con questo chiarisce che questo studio sulla transizione non si colloca in una dimensione astratta, ma nella dimensione concreta e non dogmnatica delle transizioni in corso nel XXI secolo. Questo implica anche che la trattazione non sarà rivolta solo ai problemi della pianificazione ma anche al contesto esterno a questi processi, il processo legato alle dinamiche dell’imperialismo contemporaneo. Ciò in quanto questo contesto influenza necessariamente la transizione, la condiziona, ne determina in parte le scelte. Le transizioni si realizzano in un contesto capitalistico e dunque non vanno esaminate solo per sé, ma in rapporto con le dinamiche del capitalismo. Proprio per questo, come vedremo, nella trattazione ci sarà un grande spazio dedicato proprio a queste dinamiche.
Il contesto
All’inizio Luciano Vasapollo evidenzia la necessità di recuperare la nozione di transizione, precisando che l’analizzare tale nozione in modo concreto implica l’analizzarla nella pluralità delle sue realizzazioni dal momento che a diverso contesto di applicazione (diversi rapporti di forza, diverse modalità di presa e gestione del potere, diversi gradi della socializzazione delle forze produttive) corrisponde una transizione storicamente determinata e diversa dalle altre.
Vasapollo parte dalla contraddizione tra forze di produzione [1] e rapporti di produzione [2] dove a forze di produzione che si rivoluzionano fanno da contraltare rapporti di produzione più inerti che da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene ed in tal caso subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Vasapollo individua nelle nuove forme di organizzazione della produzione dei tentativi in ambito capitalistico di rimuovere l’ostacolo che i rapporti di produzione costituiscono per lo sviluppo delle forze produttive. Negli ultimi anni queste nuove forme sono le filiere produttive internazionali [3] e all’interno di esse, come loro declinazioni, i distretti industriali a carattere internazionale [4].
Vasapollo però nota che le attuali logiche imperialistiche non riguardano solo i processi costituenti le filiere internazionali (delocalizzazione, esternalizzazione e riorganizzazione produttiva). Infatti le imprese sfruttano anche l’enorme massa di forza lavoro immigrata proveniente dalle periferie dell’impero. La loro occupazione all’interno dei poli imperialistici, al centro delle filiere produttive consente di creare quella disuguaglianza tra classi e all’interno della stessa classe che è il presupposto dell’accumulazione capitalistica, abbassando il salario dei concorrenti autoctoni e aumentando il saggio di sfruttamento e di profitto. All’interno di questo processo si evidenzia l’esigenza di parte del capitale transnazionale di un numero crescente di forza lavoro immigrata e specializzata (è il caso degli ingegneri siriani in Germania) in modo da estrarre ancora più plusvalore e da acuire i conflitti all’interno della classe lavoratrice anche nei livelli salariali più alti, indebolendo la lotta di classe e le condizioni soggettive della rivoluzione sociale.
Vasapollo esamina poi la fase a livello internazionale con la saturazione dei mercati nazionali che richiede una nuova fase di mondializzazione imperialista del capitalismo nella quale si riscontra la continua necessità di valorizzare la catena del capitale, cosa che alla lunga produce crisi e conflitti interimperialistici (guerre economiche, keynesismo militare, guerre militari soprattutto nella periferia). Un esempio è stato l’intervento Usa nell’Afghanistan nel tentativo di controllare sia la Russia che le vie del petrolio e del gas, cosa che ha suscitato la nascita di nuovi interessi sull’area e di nuovi soggetti (ad es. quelli arabi) non più disposti ad un ruolo di comprimari [5]. Proprio per questo l’identificazione tra antimperialismo e antiamericanismo è sorpassata e fose lo è anche la visione che riduce il conflitto tra polo Usa e polo europeo.
Per Vasapollo è proprio la piena internazionalizzazione del modo di produzione capitalistico ad aver segnato il declino della guida unipolare statunitense. A questo proposito le contraddizioni più evidenti sono quelle tra l’Impero militare che tende ad espandersi e la repubblica (la situazione interna agli Usa) che è in declino e ancora l’incapacità di estrarre profitti dalle regioni più recentemente cadute sotto il controllo Usa.
La crisi strutturale e poi sistemica che ha scatenato una fase depressiva prolungata a partire dal 1973-1974 ha condizionato un processo graduale di ridimensionamento economico dove la ristrutturazione, nel tentativo di uscire dalle crisi erronamente considerate cicliche, ha costituito lo scenario della transizione dal modo di produzione tecnologico meccanizzato a quello automatizzato. Al tempo stesso c’è stata la globalizzazione della finanza e l’uso contestuale del commercio internazionale come un meccanismo per compensare la svalutazione del capitale nei paesi centrali (dato che i tassi di profitto sono minori se maggiore è il rapporto tra mezzi di produzione e lavoro vivo).
All’interno di questo quadro internazionale ci sono i processi di transizione latino-americani e le loro difficoltà: per gli Usa riavere il controllo del Venezuela non significa solo avere una gestione migliore del petrolio ma dare un segnale all’interno del suo riposizionamento imperialistico contro i governi rivoluzionari o progressisti latinoamericani (senza ricorrere a dittature militari ma ad es. con golpe bianchi tipo quello contro Dilma Roussef in Brasile.
L’esperienza latino americana nella sua concretezza è il punto vero di partenza della riflessione sulla transizione. Vasapollo ricorda e cita il Che quando diceva che nel marxismo classico non esiste una economia politica della transizione già data ma esiste un’esperienza concreta che è quella sovietica da analizzare criticamente comprendendo che le scelte di Lenin non derivano in linea retta da un modello teorico, ma sono dettate dalla contingenze e dalle necessità di quel processo di transizione. Se il socialismo è il movimento reale che abbatte lo stato di cose presente, esso si costituisce nel divenire storico della prassi rivoluzionaria, nella coesistenza di diversi sistemi produttivi da armonizzare, nel rapporto tra teoria e prassi, tra strategia e tattica. In questi contesti specifici e concreti si elaboreranno e sperimenteranno (tra errori e contraddizioni) forme di pianificazione che cercheranno di adeguarsi allo sviluppo specifico delle forze produttive.
La pianificazione
Nell’introdurre il tema della pianificazione Vasapollo però evidenzia come anche nei paesi capitalistici nei primi decenni del secondo dopoguerra era avvertita l’esigenza di pianificare lo sviluppo economico (l’orientamente economico dominante era allora il keynesismo che prevedeva un significativo intervento dello Stato nell’economia).
Egli analizza il pensiero di due tra i pensatori più coinvolti nella tematica. Il primo è Jan Tinbergen (economista danese premio Nobel del 1969) che nella sua opera mostra bene la necessità (nella programmazione del piano) di una relazione virtuosa tra i fini cui si tende con la pianificazione economico-sociale e l’individuazione dei mezzi per raggiungere tali obiettivi (politica economica). Per un piano di sviluppo a lungo termine, dice Tinbergen, ci si deve porre la domanda fondamentale se l’insieme delle istituzioni sociali sia il migliore e ci si deve formare un’idea dell’ordinamento sociale cui si deve aspirare. Il piano non è uno strumento neutro ma va visto in rapporto ad obiettivi che sono oggetti di conflitto politico. Tinbergen parlando di costruire un corpo sano piuttosto che di guarire la malattia fa capire chiaramente che la politica economica deve essere una forma complessiva di gestione dello sviluppo sociale piuttosto che un modo di temperare gli squilibri di un sistema ecnomico lasciato all’iniziativa privata. Tinbergen distingue tra previsione [6] e pianificazione [7] e definisce il piano (o programma) come un insieme interdipendente di dati e fatti che ci fornisce l’andamento più desiderabile dei fenomeni e che, a partire dall’individuazione degli obiettivi dello sviluppo (questione politica e non tecnica), deve operare delle scelte tra i mezzi disponibili per dare forma al processo di sviluppo ottimale. Tinbergen inoltre distingue tre diversi tipi di piano in base alla prospettiva temporale: i piani a lungo termine (piani prospettici) [8], i piani a medio termine [9], i piani a breve termine [10]. Per Tinbergen la programmazione è un processo molto complesso che esige studi preliminari, la formulazione di progetti e di norme e soprattutto l’operare con rapporti matematici. Tuttavia è necessaria una formulazione qualitativa del suo oggetto, il suo inquadramento in una riflessione più generale. Esprimere lo sviluppo sociale ed economico desiderato mediante cifre e rapporti matematici è la parte più dura della formulazione di un programma di sviluppo. Maggiore è la complessità di una formazione sociale, più ampia sarà la mole di dati da processare e questo richiede che il processo di pianificazione sia diviso in tre fasi: una macrofase [11], una fase intermedia [12] e una microfase [13]. Tinbergen sottolinea l’importanza della pianificazione settoriale e regionale (fase intermedia e microfase) non in opposizione ma a fianco della pianificazione centralizzata (macrofase), per evitare sprechi e consentire di sviluppare la partecipazione a livello decentrato assecondando meglio le esigenze dei diversi attori impegnati nel sistema produttivo.
L’altro pensatore che viene analizzato da Vasapollo è Yvon Bourdet che, per ideologia politica, era avversario della pianificazione centralizzata e di ogni centralizzazione politica e tuttavia, pur teorizzando l’autogestione dei lavoratori, fa ampio uso degli strumenti della pianificazione e riconosce che l’interdipendenza dei gruppi sociali e della produzione rende necessario un coordinamento a livello complessivo. Bourdet parla di fabbrica del piano che consentirebbe di impostare razionalmente la pianificazione industriale a partire dalle singole unità produttive. Egli intende tracciare i caratteri fondamentali di una analisi scientifica dei meccanismi della decisione, la quale avrebbe tre elementi fondamentali e cioè le condizioni iniziali (i dati), l’obiettivo da raggiungere e i mezzi intermedi (obiettivi secondari) che permettono di raggiungere l’obiettivo primario. Il problema di Bourdet è quello di trovare i modi di dedurre i mezzi intermedi per raggiungere gli obiettivi primari a partire dalle condizioni date, compito la cui difficoltà cresce con la complessità di un sistema economico-sociale. Per Bourdet però tale complessità non rende impossibile la determinazione dei procedimenti ottimali in un sistema soprattutto se si utilizzano le potenzialità dell’innovazione tecnologica e dell’informatizzazione (intuizione già elaborata da Che Guevara all’inizio degli anni Sessanta). A questo proposito Bourdet riprende il metodo dell’analisi input-output di Wassily Leontieff (premio Nobel dell’economia nel 1973) [14] e a questo proposito sottolinea che ai fini del corretto funzionamento della procedura di calcolo occorre da un lato un censimento esatto delle risorse e dei dati iniziali e dall’altro lato la determinazione dei coefficienti tecnici di correlazione [15]. Se l’analisi di Leontieff, aggiunge Vasapollo, è stata usata sia in ambito socialista che in ambito capitalista, tuttavia in un’economia socialista le tavole di Leontieff nascono dalla necessità di calcolare questi coefficienti i quali cambiano continuamente (ad es. quando vengono introdotti miglioramenti tecnologici) ma con questo metodo si possono ricalcolare in breve tempo tutti gli sfasamenti che si verificano rispetto alle modifiche delle condizioni tecniche della produzione. In questo modo è possibile gestire i rapporti e i flussi produttivi tra i diversi settori economici equilibrando maggiormente la relazione tra lavoro, produzione e ambiente.
La parabola del keynesismo e il polo imperialista europeo
Nonostante queste riflessioni, all’interno del sistema capitalistico l’istanza della pianificazione si è progressivamente affievolita e questo è coinciso con la parabola del modello keynesiano. Quest’ultimo si era accompagnato al modello produttivo fordista e fungeva quasi da ammortizzatore sociale dato che, oltre ad essere sostenimento di domanda pubblica ha avuto anche funzione sociale quando il movimento dei lavoratori ha espresso conflittualità riuscendo ad accedere a forme di redistribuzione dei redditi oltre che di parte della ricchezza sociale creata. Con il tempo però e con la reazione della classe borghese il keynesismo si presenta solo come keynesismo del privato [16] o come keynesismo militare [17]. Parallelamente la crisi sistemica evidenzia che non c’è una possibilità di rilancio del sistema keynesiano di rilancio della domanda pubblica.
Vasapollo evidenzia come nei paesi europei (dove il keynesismo si era realizzato più conseguentemente) il capitalismo si reinventa mediante riconfigurazioni produttive e la finanziarizzazione del capitale, con enormi costi sociali nella maggior parte dei paesi. Il modello sociale europeo è sempre più in crisi e l’Unione europea sta attraversando un’intensa e prolungata crisi economica che colpisce le fondamenta della sua esistenza come progetto politico. Lo squilibrio della struttura istituzionale dell’Unione economica e monetaria europea ha costretto i vari membri ad affrontare le cosiddette riforme strutturali con una tenuta relativa di Francia e Germania mentre nel sud Europa, quello dei cosiddetti paesi Pigs [18], la disoccupazione aumenta e si fa strutturale e il potere d’acquisto dei salari si comprime fortemente per cercare di sanare le finanze pubbliche e rinforzare l’applicazione dei patti di stabilità e le politiche di aggiustamento. Le raccomandazioni sociali e i dettami della Troika diretti agli stati membri della UE dicono che basta stabilizzare la situazione finanziaria dei governi e delle banche per tornare ad uno scenario di crescita. Perciò impongono (per avere gli aiuti necessari alla riduzione del debito) che i costi del Welfare e quelli del lavoro debbano diminuire, i diritti dei lavoratori essere indeboliti e le tasse aumentate, senza prendere in considerazione la necessità che i modelli sociali dei vari paesi dovrebbero incidere positivamente sulle diseguaglianze ed assicurare più alti livelli di vita ai cittadini.
Le alleanze politiche del mondo del lavoro per Vasapollo devono affrontare una sfida storica. Anche in questo caso è chiaro ad es. che la Grecia da sola non ce la può fare ma ha bisogno del supporto di un’area, di un sistema bancario nazionale, della nazionalizzazione dei settori strategici, di una nuova moneta di conto (più o meno lo stesso percorso dei paesi dell’Alba). Probabilmente l’unica via è dire no all’attuale UE e uscire dall’euro senza tornare alle monete nazionali (o addirittura ad un nazionalismo di ritorno) ma attraverso un’ipotesi che parta dal basso nella logica della complementarità produttiva che includa Nord Africa ed Est Europa in modo da integrare risorse primarie ed energetiche, fordismo e servizi. Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per paesi con strutture produttive più o meno simili è l’unica alternativa realizzabile che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori. In tutti i casi la fuoriuscita e la costituzione di un’area euro-mediterranea di ispirazione internazionalista rappresenterebbero un’opzione di attacco al sistema del capitale europeo. L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo (il polo imperialista europeo) e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione del lavoro imposta dai paesi centrali. Si pone quindi da subito il problema dell’orizzonte strategico della rottura di aree capitaliste come l’Europolo.
I tentativi di transizione del XXI secolo
A tal proposito da molto tempo anche tra marxisti vive un dibattito sull’opportunità per una qualsiasi area di paesi con struttura economico-sociale simile di realizzare il distacco dall’azienda-mondo (ossia secondo Jaffe dai poli di dominio del sistema capitalistico internazionale e dalle sue istituzioni come FMI, BM e WTO). L’Alba latino-americana è sembrata essere un tentativo di questo tipo. In essa si sono affermati modelli di sviluppo autodeterminati, incentrati sulle risorse e le economie locali, valorizzando le proprie tradizioni culturali e produttive e rinunciando così più facilmente a tante merci inutili importate e funzionali ad un sistema di consumismo insostenibile.
E’ in questo contesto che va affrontata la questione dell’equilibrio da trovare tra pianificazione centrale generale e decentramento settoriale e regionale, equilibrio le cui forme non sono date a priori ma devono essere trovate nella prassi concreta e dialettica del processo rivoluzionario. [19]
Vasapollo sostiene che è il momento di serrare le fila per la difesa dei processi rivoluzionari in atto (es. l’Alba) promuovendo una resistenza di massa ma con caratteri offensivi (ad es. nel caso della rottura con l’Unione Europea) capaci di mobilizzare tutte le forze rivoluzionarie e del cambiamento su tutti i terreni. Non si tratta infatti di sviluppare una battaglia di potere semplicemente sostitutivo e su interessi similari ma di procedere velocemente su un terreno di potere alternativo. Significa contrapporsi duramente alle scelte di guerra da parte degli imperialismi che vogliono ridisegnare la mappa del potere politico tentando di distruggere i modelli sociali e le transizioni antimperialiste e antiliberiste. In questo senso, pur essendo vero che senza la critica e l’autocritica il processo di pianificazione rischia di non essere più in grado di rispondere alle necessità sociali, ci sono tempi e tempi per la critica e l’autocritica e oggi è il momento di difendere in tutti i modi le conquiste politiche e sociali ottenute dalle transizioni del XXI secolo. Quindi, resistendo ma allo stesso tempo realizzando percorsi di approfondimento radicale del processo di transizione alla democrazia socialista, attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e del sistema bancario, controllando il commercio estero, solo così si può realmente assumere la sfida (resa necessaria dalla crisi sistemica del capitale) di costruire nella teoria e nella prassi una nuova visione economica. La pianificazione dello sviluppo come gestione razionale della società è un imperativo assoluto che
deve essere perseguito a livello internazionale e il passaggio che la renda possibile presuppone non solo l’esplosione drammatica dell’oggettività ma anche la presenza organizzata della soggettività rivoluzionaria. Ciò che possiamo assicurare, conclude Vasapollo, è l’impossibilità della sopravvivenza del capitalismo a medio lungo-termine, ma la nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per autodistruzione (crollismo). In assenza di una forza soggettiva organizzata capace di proporre concretamente soluzioni, il sistema troverà ancora a breve delle modalità attuative capaci di garantirne la sopravvivenza.
11 aprile 2020
NOTE
[1] ↑ Per forze produttive Marx intende i lavoratori che costituiscono la forza-lavoro, i mezzi di produzione e le conoscenze tecnico-scientifiche.
[2] ↑ Sono quell’insieme di rapporti che costituiscono la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica.
[3] ↑ Ciclo produttivo che in un’ottica internazionale si valorizza nei contesti dove più deboli sono le contraddizioni tra capitale e lavoro, incentivando i settori più soggetti alla competizione globale e a maggiore contenuto di valore. Le imprese tendono ad assumere una struttura verticalmente integrata sia nel campo della produzione sia in quello finanziario con i processi di globalizzazione che trasformano la vecchia struttura di un impresa, esternalizzando varie funzioni e fasi del processo lavorativo a soggetti giuridicamente autonomi ma economicamente controllati dall’impresa madre che raccoglie i capitali minori centralizzandoli e assorbendo parte del salario creato lungo la catena e aumentando l’estrazione di plusvalore.
[4] ↑ Raggruppamenti di zona nazionali o internazionali di aziende integrate tra loro nella forma della filiera. Questi distretti sono totalmente slegati dalla logica industriale della nazione in cui si trovano. Al loro interno vediamo una forte gerarchizzazione verticale delle imprese per consentire una competitività basata sullo sfruttamente delle economie esterne di scala, dalle relazioni strategiche riguardanti l’area commerciale transnazionale esterna al distretto. Il centro della filiera assume un ruolo egemone sia perché qui si trovano le fasi del ciclo produttivo a più lto valore aggiunto sia perché dal centro provengono le spinte verso l’organizzazione particolare della produzione nei singoli distretti.
[5] ↑ La nascita di un polo islamico è stata tematizzata dalla riflessione di Vasapollo e del gruppo di compagni che si riconosce nela Rete dei Comunisti (si veda l’articolo di Sergio Cararo ne Gli apprendisti stregoni e la guerra)
[6] ↑ Procedura utilizzata nel sistema capitalistico che cerca di anticipare il livello raggiunto da un sistema economico tendenzialmente lasciato libero di agire.
[7] ↑ Procedura in cui si pongono degli obiettivi futuri a partire dall’analisi della situazione produttiva oggettiva e cerca di definire i mezzi necessari per raggiungere tali obiettivi.
[8] ↑ Piani che contemplano periodi fino a 15-20 anni e che delineano le priorità e le tendenze di fondo dello sviluppo di un paese. In essi si affrontano fenomeni sociali sui quali esiste un certo margine di prevedibilità nel lungo periodo (aumento della popolazione, sviluppo dell’istruzione, sviluppo di fattori tecnici generali). Per Tinbergen un piano a lungo termine ha tanto più senso quanto più il governo del paese vuole modificare la struttura economico-sociale. Esso costituisce lo sfondo dei piani a medio e breve termine affinchè questi si inquadrino in uno sguardo storico-politico generale della società.
[9] ↑ Piani che coprono all’incirca cinque anni e permettono di lavorare con maggiore precisione su determinati settori di attività che si ritiene rivestano un ruolo strategico nello sviluppo del paese.
[10] ↑ Piani annuali che hanno la funzione di delineare l’esecuzione effettiva della politica economica in stretta relazione con i bilanci dello Stato.
[11] ↑ Fase che esprime in termini macroeconomici lo sviluppo auspicato senza suddivisione in regioni o settori di attività.
[12] ↑ Fase che introduce i livelli regionali e settoriali di attività.
[13] ↑ Fase che ha come oggetto progetti semplici o complessi di progetti e norme trattati da un unico soggetto esecutivo.
[14] ↑ Analisi che si basa sulla suddivisione di un sistema economico in settori e nel mettere in evidenza le reciproche interdipendenze, ovvero ciò che ogni settore riceve dagli altri settori (input) e ciò che fornisce agli altri settori (output), tutto ciò attraverso tabelle a doppia entrata (matrici) che riassumono tutte le transazioni di beni e servizi avvenute nel sistema in un certo periodo, fornendo un’immagine analitica di quel sistema in un certo momento e ad un certo grado di sviluppo tecnologico. Le relazioni di scambio tra settore e settore variano al variare della produzione di ogni singolo settore e la registrazione di queste variazioni tramite le tabelle di Leontieff consente di fare previsioni accurate sugli effetti dell’introduzione di nuove tecnologie, della fondazione di nuove industrie, della variazione della produzione di ogni singola industria, della variazione della domanda di ogni singola industria e più in generale dell’applicazione di una qualsiasi strategia economica al sistema.
[15] ↑ Nelle tabelle di interdipendenza settoriale (così pure sono chiamate) sono disposti i coefficienti tecnici che esprimono la dipendenza di ogni settore dagli altri: stabilito ogni obiettivo finale, la soluzione di un sistema di equazioni simultanee consente di definire con precisione gli obiettivi intermedi (i mezzi) e dunque i compiti da realizzare in ogni settore dell’economia.
[16] ↑ Keynesismo dove viene garantito pieno sostegno alle imprese private e al sistema bancario con denaro pubblico.
[17] ↑ Keynesismo che mira al sostegno della domanda pubblica a fini militari ovvero al finanziamento dell’apparato industriale militare e dell’indotto di quest’ultimo.
[18] ↑ Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. Non tutti i paesi infatti hanno accusato la crisi allo stesso modo anche se essa ha riguardato complessivamente tutta l’Europa.
[19] ↑ In questo ci viene in auto anche Tinbergen quando ribadisce la necessità di un raffronto continuo del piano con l’evoluzione della situazione reale per giudicare la pertinenza delle politiche applicate e per essere in grado se necessario di apportare le dovute correzioni (nel senso di alzare l’asticella allo step successivo aumentando gli sforzi o di adeguarsi maggiormente alla realtà)