Un significativo articolo di Lenin con una premessa di A. Allegra
Nell’autunno del 1901 Lenin aveva scritto Che fare? – testo programmatico con cui da una parte si formulava una teoria dell’organizzazione comunista – il partito, in quanto soggettività organizzata, con un programma e un lavoro quotidiano; dall’altra ci si accingeva a dare battaglia all’interno del II congresso del POSDR (1903) contro quella posizione che propugnava un tipo di organizzazione più informe e disciolta (più “liquida”). «Alla concezione del partito come movimento, dove il limite tra il partito e la classe è indefinito, dove non è chiara la distinzione tra il partito e le masse, e non precisato il rapporto tra direzione e spontaneità» (Luciano Gruppi), Lenin opponeva una distinzione tra soggettività organizzata e massa. Attenzione, distinzione, non separazione.
La distinzione serve per ovviare a un problema che al tempo era all’ordine de giorno: come trasformare la spontaneità della classe lavoratrice, che in quel momento lottava e che aveva portato avanti forti mobilitazioni e moltiplicato in modo esponenziali le giornate di sciopero, in un progetto cosciente di trasformazione radicale della società? Come Lenin poté constatare, la spontaneità non si tramutava automaticamente in elemento cosciente. Occorreva intervenire attivamente, allora, affinché questo avvenisse.
L’elemento cosciente deve allora costituirsi come parte del più vasto movimento, ma non può confondersi con esso. Deve distinguersi, ma non può separarsi. Deve cioè fondare il nucleo di un progetto e di una volontà di trasformazione che guidi quelle istanze sociali spontanee che sono la materia prima da trasformare nel contenuto dell’attività rivoluzionaria. Il partito è la forma di un progetto, di un fare, il cui fine non appartiene all’elemento spontaneo (non sorge da esso), ma appartiene all’elemento cosciente. Questi dà, o cerca di dare, una prospettiva alle forze sociali che costituiscono la forza storica trainante della trasformazione sociale e politica.
Il rapporto con le masse deve allora essere inteso come rapporto pedagogico, in cui l’elemento cosciente si trasferisce nell’elemento spontaneo. Per far ciò, occorreva mutare il rapporto che tradizionalmente si aveva con le masse e, di conseguenza, l’azione pedagogica svolta dal partito. Fino ad allora i partiti e le organizzazioni operaie fungevano anche da scuole vere e proprie, in cui gli operai imparavano a leggere e si formavano politicamente attraverso la propaganda scritta e orale. Seppur importante, dice Lenin, tutto ciò è insufficiente, perché stare accanto, stare dentro le masse senza una capacità di direzione cosciente non educa le masse (e come solitamente si usa dire in questi casi, “educare” significa “condurre fuori”, ex ducere). Allora il portare fuori, frutto di un’azione cosciente, è il senso principale del rapporto del partito con le masse. Ma per fare ciò, ovviamente, l’organizzazione, l’elemento cosciente, la parte avanzata deve essere preparata a farlo.
Solo se è chiaro ciò, si possono capire le parole di questo scritto de 1905, scritte proprio mentre stava per scoppiare la cosiddetta rivoluzione russa del 1905, durante la quale nacquero i soviet.
In un momento in cui, come quello attuale, gli elementi di conflittualità sociale possono esplodere da un momento all’altro, la lettura di queste parole di Lenin potrà forse non essere un esercizio meramente filologico.
1 maggio 2020
V. I. Lenin
giugno 1905
Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1961, Vol. 8, pp. 414-417.
Abbiamo tra noi non pochi socialdemocratici che, sotto l’influenza di ogni sconfitta degli operai negli scontri isolati con i capitalisti o con il governo, cadono in preda al pessimismo e respingono con disprezzo tutti i discorsi sulle più alte e grandi mete del movimento operaio, richiamandosi alla nostra insufficiente influenza sulle masse. Che possiamo fare?! a che punto siamo!? – dicono costoro. È inutile parlare della funzione della socialdemocrazia, come forza d’avanguardia della rivoluzione, quando non conosciamo con chiarezza nemmeno l’orientamento delle masse, quando siamo incapaci di fonderci con gli operai e di mobilitarli nella lotta! Gli scacchi subiti dai socialdemocratici il primo maggio di quest’anno hanno aggravato di molto un simile stato d’animo. Naturalmente, i menscevichi o neoiskristi si sono affrettati a farsene interpreti per lanciare ancora una volta, come parola d’ordine particolare, lo slogan: «Andiamo alle masse!», quasi per far dispetto a qualcuno, quasi per rispondere alle idee e ai discorsi sul governo rivoluzionario provvisorio, sulla dittatura democratica rivoluzionaria, ecc.
Non si può fare a meno di riconoscere che in questo pessimismo è nelle relative conclusioni tratte dai frettolosi pubblicisti neoiskristi c’è un tratto molto pericoloso, che può causare gravi danni al movimento socialdemocratico. Non c’è che dire: l’autocritica è assolutamente necessaria per ogni partito vivo e vitale. Niente è più triviale dell’ottimismo soddisfatto di sé. Niente è più legittimo dell’indicazione della permanente e assoluta necessità di approfondire ed estendere, di estendere e approfondire la nostra influenza sulle masse, la nostra propaganda e agitazione rigorosamente marxista, il nostro contatto con la lotta economica della classe operaia, ecc. Ma proprio perché quest’indicazione è legittima sempre, in qualsiasi circostanza e situazione, non deve essere trasformata in una parola d’ordine particolare, non può giustificare il tentativo di fondare su di essa una tendenza particolare della socialdemocrazia. Qui c’è un limite oltre il quale la vostra indicazione legittima si trasforma in una restrizione dei compiti e dell’ampiezza del movimento, nell’oblio dottrinario degli essenziali compiti politici d’avanguardia del movimento.
Bisogna sempre approfondire ed estendere il lavoro e l’influenza fra le masse. Senza di ciò il socialdemocratico non è più socialdemocratico. Nessuna organizzazione, nessun gruppo o circolo può considerarsi socialdemocratico, se non svolge in modo permanente e sistematico questo lavoro. Tutto il significato della nostra precisa costituzione in partito autonomo del proletariato sta, in gran parte, nel fatto che noi abbiamo svolto sempre e con energia questo lavoro marxista, portando nei limiti del possibile al livello della socialdemocrazia consapevole tutta la classe operaia, senza consentire a nessuna, decisamente a nessuna, bufera politica – e tanto meno ai cambiamenti di scena – di distoglierci da questo lavoro essenziale. Senza di esso, l’attività politica degenererebbe di necessità, diventando un puro e semplice giuoco, perché l’azione politica acquista un significato effettivo per il proletariato solo quando e nella misura in cui mobilita la parte fondamentale di una classe, l’interessa, la spinge a partecipare alla lotta in modo attivo, progressivo. Come abbiamo già detto, questo lavoro è necessario sempre: e dopo ogni sconfitta lo si può e lo si deve ricordare, sottolineare, perché la sua debolezza è sempre una delle cause della disfatta del proletariato. Anche dopo ogni vittoria bisogna sempre ricordare e sottolineare l’importanza di questo lavoro, perché altrimenti la vittoria sarà apparente, i suoi frutti non saranno concreti, il suo significato reale, sotto il profilo della nostra grande lotta per la meta finale, sarà irrisorio e potrà persino sembrare negativo (appunto nel caso in cui una vittoria parziale addormenti la nostra vigilanza, attenui la diffidenza verso gli alleati malsicuri, permetta di lasciarsi sfuggire l’occasione per un nuovo e più efficace assalto contro il nemico).
Ma proprio perché questo lavoro di approfondimento e allargamento dell’influenza sulle masse è sempre ugualmente necessario dopo una vittoria, e dopo una sconfitta, in un’epoca di ristagno politico e nel periodo rivoluzionario più tempestoso, è impossibile tramutare l’indicazione della sua necessità in una parola d’ordine particolare, fondare su di essa una tendenza particolare, senza rischiare di cadere nella demagogia e nella sottovalutazione dei compiti della classe d’avanguardia, unica classe effettivamente rivoluzionaria.
Nell’azione politica del partito socialdemocratico c’è, e ci sarà sempre, un elemento pedagogico; bisogna educare l’intera classe degli operai salariati a combattere per la liberazione di tutta l’umanità da ogni oppressione; bisogna addestrare tenacemente sempre nuovi strati di questa classe, bisogna saper avvicinare i componenti meno coscienti ed evoluti della classe, gli elementi meno toccati dalla nostra scienza e dalla scienza della vita, per parlare con loro; bisogna saperli avvicinare, saperli elevare con coerenza, con pazienza fino alla coscienza socialdemocratica, senza trasformare la nostra dottrina, in un arido dogma, non insegnandola solo con i libri, ma anche con la partecipazione alla lotta quotidiana degli strati più umili e arretrati del proletariato. Quest’azione quotidiana contiene in sé – lo ripetiamo – un certo elemento pedagogico.
Il socialdemocratico che dimentichi tale attività cessa di essere socialdemocratico. È così. Ma tra noi si dimentica spesso che anche il socialdemocratico che cominci a ridurre alla pedagogia i compiti politici cessa – sia pure per un altro motivo – di essere socialdemocratico. Chi pensasse di trasformare la «pedagogia» in una parola d’ordine particolare, di opporla alla «politica», di fondare su questa opposizione una tendenza particolare, di far appello alla massa in nome di questa parola d’ordine contro i «politici» della socialdemocrazia, diventerebbe di colpo e inevitabilmente un demagogo.
Ogni paragone zoppica, come tutti sanno da un pezzo. Ogni paragone coglie solo un lato e solo alcuni aspetti degli oggetti o dei concetti confrontati, astraendo in via provvisoria e convenzionale dagli altri lati. Ricordata al lettore questa verità universalmente nota, ma così spesso dimenticata, paragoniamo il partito socialdemocratico a una grande scuola, che è elementare, media e superiore al tempo stesso. In nessun caso, la grande scuola potrà dimenticarsi di insegnare l’alfabeto, di impartire i rudimenti del sapere e di un pensiero autonomo. Ma, se qualcuno pensasse di risolvere i problemi dell’istruzione superiore richiamandosi all’alfabeto, se qualcuno cominciasse a opporre i risultati instabili, dubbi, «angusti» dell’insegnamento superiore (accessibile a una cerchia molto ristretta di persone rispetto a quella di coloro che studiano l’alfabeto) ai risultati durevoli, approfonditi, ampi e solidi della scuola elementare, rivelerebbe una straordinaria miopia. Costui potrebbe persino contribuire a snaturare del tutto il significato della grande scuola, perché l’ignoranza dei problemi della cultura superiore non farebbe che agevolare ai ciarlatani, ai demagoghi e ai reazionari il compito di fuorviare chi ha studiato soltanto l’alfabeto. O, ancora, paragoniamo il partito all’esercito. Né in tempo di pace, né in tempo di guerra si può mai trascurare l’addestramento delle reclute, la scienza del tiro, la diffusione ampia e profonda dei principi elementari dell’arte militare fra le masse. Ma se coloro che dirigono le manovre o le effettive battaglie….