Rete Dei Comunisti
Le elezioni legislative svoltesi domenica 6 in Venezuela novembre sono un indubbio successo per il Gran Polo Patriótico.
Le urne sanciscono la tenuta del processo bolivariano proiettandolo in avanti, con un possibile “effetto volano” per quella nuova ondata progressista che in forme differenti si sta affermando in America Latina: Argentina, Bolivia e Cile, nonché per quelle lotte che in Perù ed in Guatemala stanno mettendo in discussione i lasciti di un morente neo-liberalismo.
In poco più di 20 anni, in Venezuela, ci sono stati 24 test elettorali, 22 di questi vinti dalla dirigenza bolivariana, ma nonostante questo vi sono Stati che ancora si arrogano il diritto di negare la patente di democraticità al Paese latino-americano, tra cui la maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea.
Il Polo – la coalizione guidata dal PSUV – ha ottenuto circa il 70% dei voti. Si sono recati alle urne circa 1/3 degli aventi diritto per eleggere 277 rappresentanti su ben 14.400 candidati, in rappresentanza di più di un centinaio di formazioni politiche, di cui circa un terzo di taglia nazionale.
Il dato della “scarsa” partecipazione al voto dev’essere contestualizzato, tenendo conto dell’afflusso maggiore che si registra per le elezioni presidenziali e quello minore per appuntamenti elettorali di questa tipologia: alle presidenziali del 2018 votarono il 46,1% degli aventi diritto, mentre nelle elezioni legislative del 2005, durante la presidenza di Chavez, la partecipazione era stata del 25%.
Un dato comunque non scontato, vista la situazione di precarietà sanitaria dovuta al contagio da Covid-19 – nonostante lo scrupoloso rispetto dei protocolli di sicurezza ai seggi – ed il blocco statunitense che rende difficili tutti gli spostamenti per via della cronica mancanza di carburante per i mezzi di trasporto.
Un chiaro paradosso per un Paese che ha le più grandi riserve di greggio stimate del Pianeta, ma che a causa di un embargo petrolifero statunitense dall’aprile 2019 imposto sotto l’amministrazione Trump, vive una costante penuria di carburante.
Vogliamo sottolineare innanzitutto due dati generalmente ignorati dai media mainstream.
Il primo è l’allargamento della rappresentanza nell’Assemblea, cioè l’aumento del numero degli eletti (277 seggi, un aumento del 66%), che incrementa la proporzione tra eletti ed elettori (20 milioni di iscritti alle liste elettorali).
Una chiara inversione di tendenza rispetto alle democrazie occidentali che vanno verso uno svuotamento anche formale dei propri organi eletti, e che permette a parti consistenti della società venezuelana di essere rappresentate dentro le istituzioni.
Il secondo è il reiterato e pervicace tentativo vittorioso di Maduro di ricondurre una parte dell’opposizione nell’alveo della dialettica democratica istituzionale, disinnescando il potenziale eversivo di una destra che in forme diverse si era espressa in maniera violenta e proto-golpista negli scorsi anni. Un’apertura che aveva tra l’altro portato alla liberazione – per un grande gesto di generosità di Maduro – di un centinaio di cosiddetti “prigionieri politici” a fine agosto e al tentativo di dialogo con l’ex presidente Henrique Capriles. L’ex presidente aveva criticato l’opzione del boicottaggio della destra più oltranzista, ma ha deciso di non presentarsi comunque in questa tornata elettorale.
Tra le fila della destra venezuelana solo i più squallidi pupazzi dell’imperialismo nord-americano ed europeo hanno rifiutato la possibilità di partecipazione a queste elezioni, boicottandole come hanno fatto il golpista Juan Guaido e Leopoldo López – che ora vive in Spagna – a differenza della maggior parte delle composite formazioni della destra che hanno ottenuto il 18% dei consensi.
Da parte di Guaido si tratta dell’ennesimo boicottaggio del processo elettorale dopo quello dell’Assemblea Costituente nel 2017 e dell’elezioni presidenziali del 2018.
L’attuale presidente del Parlamento dal 2015, ha organizzato da questo lunedì 7 dicembre fino al 12 dello stesso mese una farsa di consultazioni popolari, sulle quali conta di appoggiarsi per prorogare il suo mandato al di là della sua data di cessazione, il 5 gennaio prossimo. Questo “voto” fittizio si svolgerà, secondo ciò che dichiarano gli organizzatori, attraverso Internet o nei circa 7 mila seggi allestiti in Venezuela ed in una ottantina di altri Paesi.
Con sprezzo della vergogna l’auto-proclamato presidente del Venezuela nel gennaio 2019, riconosciuto da una sessantina di Paesi capeggiati dagli Stati Uniti, ha affermato che: «il rifiuto maggioritario del popolo venezuelano è stato evidente (…) Il Venezuela ha girato le spalle a Maduro», chiedendo ulteriori sanzioni per un Paese che affronta già una grave crisi economica. Un chiaro segnale della volontà dei suoi sponsor politici (USA e UE tra gli altri) di portare avanti il processo di delegittimazione del voto, come dimostrano le parole di Mike Pompeo, il vice di Trump uscito sconfitto nelle recenti elezioni presidenziali statunitensi.
La filo-statunitense Organizzazione degli Stati Americani ha affermato domenica di non riconoscere la validità di queste legislative, insieme ad altri stati, mentre l’Unione Europea ne aveva chiesto il rinvio perché non le riteneva né trasparenti né credibili, di fatto delegittimandole.
Una delle poche voci “fuori dal coro” è stato l’ex presidente del governo spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero, recatosi a Caracas come osservatore elettorale. Il socialista spagnolo ha invitato l’UE – che non ha partecipato con propri osservatori al voto – ad una riflessione profonda sulla scelta da lui ritenuta sbagliata di delegittimazione del processo elettorale. Un piccolo ma comunque significativo segnale di possibili “fratture” tra l’establishment politico della sinistra continentale.
La coalizione guidata dal PSUV, quindi, ritrova la maggioranza che aveva perso in questo corpo eletto cinque anni fa, superando l’impasse di una istituzione che si era caratterizzata solo e semplicemente per l’ostruzionismo, e non certo per una opposizione costruttiva. Può quindi ora procedere politicamente in una difficoltosissima situazione economica, ma facendo avanzare all’interno un processo comunque minato dalle continue ingerenze esterne e dalle pressioni internazionali.
Come Rete di Comunisti valutiamo che questo risultato sia la tenuta di una prospettiva che ha ricadute positive dirette su tutto il continente latino-americano, e che rafforza l’ipotesi della costruzione di relazioni internazionali che non abbiano al centro le oligarchie statunitensi ed europee.
Un risultato che va nella direzione auspicata per chi lotta anche qui contro la barbarie di un sistema politico-economico marcio fino al midollo. Nel corso di questi mesi abbiamo dato vita ad una campagna politica come “Americhe: tra socialismo e barbarie” che ha dato voce alle ragioni di un continente – innanzitutto Cuba e Venezuela – che non si piega al destino disegnato per lui da USA e da Unione Europea.
Continueremo in questa direzione.
Aqui se no se rinde nadie!
Rete Dei Comunisti – 7 dicembre 2020