(Massimiliano Piccolo)
I Quaderni filosofici di Lenin sono un’opera di filosofia; affermare qualcosa già mostrato così chiaramente nel titolo non sempre è un esercizio retorico o una vuota tautologia. Vuole essere invece, in questo caso, una presa di posizione. È un posizionamento consapevole all’interno di quello stesso dibattito teorico in cui molte voci avevano voluto sminuirne proprio la portata teoretica.
Ma, parafrasando espressioni oggi di uso frequente, potremmo dire di essere vaccinati contro il virus dell’ideologia dominante già da Marx e, poi, con Lenin, di aver fatto pure il “richiamo”. Sappiamo benissimo, infatti, che lo scontro epistemologico è parte della battaglia ideologica e che questa, a sua volta, è un momento della lotta di classe.
È sufficiente, inoltre, una panoramica sullo stato attuale dell’insegnamento filosofico (ma non solo) nei licei – e della sua ricezione nella cultura generale – per avere plasticamente una dimostrazione della definizione althusseriana della scuola come Apparato Ideologico di Stato.
La filosofia, infatti, o è ridotta a sproloquio generale, a chiacchiericcio di fondo, in cui ci si allena in uno sport molto popolare, quello in cui vince chi la spara più grossa, oppure, se fatta in modo rigoroso e più o meno serio, diventa una scienza occulta, praticata da pochi adepti che una volta incappucciati in modo da non vedere il mondo esterno, praticano un qualche strano rito.
Parimenti alla scomparsa della geografia, della ricchezza di tutti quegli elementi descrittivi, materiali e oggettivi senza i quali ogni pratica scientifica è depotenziata perché decontestualizzata; e così, eliminando ideologicamente i fatti, rimangono solo interpretazioni: e via così – allora – a chi la spara più grossa!
L’unico testo propriamente filosofico, scritto da Lenin, è Materialismo ed empiriocriticismo (1908) mentre i Quaderni filosofici (scritti durante la Prima guerra mondiale ma pubblicati per la prima volta postumi nel 1929-30) raccolgono osservazioni e commenti in forma asistematica.
Fin dall’inizio del Novecento, l’empiriocriticismo era penetrato in larghi strati della filosofia e delle scienze russe; dopo il 1905, si guardava a esso con particolare attenzione. Per Lenin, ciò che destava particolare preoccupazione era che esso trovava proseliti tra i socialdemocratici e fosse ritenuto compatibile con il marxismo, che anzi si scorgesse in esso lo strumento per modernizzare l’opera di Marx ed Engels; il leader di questo presunto rinnovamento era Aleksandr Bogdanov.
Prima del 1905 e dopo il 1914, invece, Lenin fu assorbito dai problemi della dialettica hegeliana, come dimostrano la politica e le attività culturali da lui svolte dopo il 1917. Nel 1923, poi, con la pubblicazione di Storia e coscienza di classe di Lukacs, si segna un punto di non ritorno nella cultura rivoluzionaria: l’atteggiamento positivista della II Internazionale è radicalmente criticato in nome del ritorno alla storicità marxista e alla dialettica hegeliana.
Ecco, allora, che nell’attualità del nostro contesto, la nuova “Introduzione” scritta da Roberto Fineschi ai Quaderni filosofici di Lenin riveste particolare importanza perché ricostruisce e consegna al lettore tutto il pathos di un’indagine teoretica marxista seria nel suo legame con la realtà del mondo.
Ma questo rigore nell’indagine non rappresenta quello che dicevamo prima, cioè un rito iniziatico per pochi adepti. Si nota subito, infatti, tutta la tensione didattica di Fineschi nell’esigenza avvertita e, poi, meticolosamente attuata con cura filologica, di mettere ordine, di chiarire, avendo sempre a mente lettori anche non “iniziati”.
Così, temi strettamente teoretici, come l’indipendenza della Realtà dal pensiero che la pensa – dalla polemica di Socrate contro i sofisti alla dissoluzione del Criticismo kantiano nell’Idealismo – costituiscono, assieme all’asserzione hegeliana secondo cui “il vero è l’intiero”, le fondamenta di un pensare la realtà fenomenica nel suo essere ciò che è perché obbedisce a una legge.
La Scienza della logica di Hegel, dunque, come premessa necessaria di una conoscenza scientifica del modo di trasformazione del mondo. Lenin, infatti, rileva Fineschi, intuisce l’esistenza di un altro Hegel – oltre a quello “mistico” da lui stesso criticato dopo Feuerbach, Marx ed Engels; quello in cui si disegna l’esito di una traiettoria della logica, da astrazione separata dal mondo (i nessi formali di un pensiero quando pensa l’oggetto) a ontologia.
Il Capitale non si può dunque capire senza La Scienza della Logica. Il marxismo, allora, deve guadagnarsi il primato – sulle altre concezioni del mondo – all’interno del piano effettuale della realtà e, se subisce sconfitte, esse devono essere intese come tappe necessarie all’interno di un processo di lunga durata, qual è quello storico del farsi della verità.
Un’osservazione ancora che è pure una domanda: la diversa ricezione tra Oriente e Occidente del testo di Lenin, non conferma (forse) la giusta posizione, assunta dallo stesso Lenin, a proposito del dibattito sul Proletkult?
Questo era un’organizzazione, creata subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, che intendeva sviluppare la cultura dei lavoratori sovietici. Lenin entrò in contrasto con Pletnev sul tema della cultura proletaria: non pensava, cioè, che solo il proletariato producesse la cultura socialista e che anzi, quest’ultimo, non dovesse liquidare il passato ma appropriarsi della cultura borghese.
Scrive Fineschi che “la formazione filosofica di Lenin è marcatamente segnata da alcuni autori attraverso i quali recepisce le opere di Marx ed Engels e da una certa cultura politica”. Importante sottolineatura perché segna da subito il carattere antidogmatico che il marxismo deve sempre rivendicare, con tutta la ricchezza delle diverse sfumature determinate dalle mutevoli condizioni storiche.
Valeva già per Lenin, quindi più chiaro di così.
Concludendo: bisogna ringraziare chi, sia come Editore sia come studioso, si cimenta oggi con il recupero dei classici rivoluzionari, perché la fase che stiamo attraversando sembra essere giunta all’apice del suo momento critico.
Gli ultimi decenni, quelli successivi alla sconfitta subita dal movimento operaio e dal movimento comunista internazionale, hanno visto l’affermazione dell’ideologia borghese che è riuscita sì a esercitare una funzione egemonica ma senza diventare, nonostante i diversi tentativi di dissimulazione del reale, pensiero unico.
Il pensiero, infatti, potrebbe dirsi unico, solo qualora fosse capace di fagocitare l’intera realtà, di sussumerla per intero sotto di sé, non concedendo così spazio alcuno di opposizione culturale e occultando finché può la materialità delle cose che, per definizione, è invece soggetta al cambiamento. Il pensiero unico, insomma, come pendant ideologico della cosiddetta globalizzazione.
Ma oggi, proprio la materialità delle cose, ci mostra invece il fallimento del Modo di Produzione Capitalista, la sua incapacità di sussumere il globo e rappresentarlo in modo univoco. Davanti a questo fallimento, abbiamo il dovere di continuare a svolgere la nostra funzione critica contrastando quello che rimane il pensiero dominante della nostra epoca.
Parliamone, allora, con Roberto Fineschi, sabato 3 luglio alle ore 18,00, presso il C.S.O. Intifada in via di Casal Bruciato 15, a Roma.