Valter Lorenzi
Care compagne e compagni, a causa del numero esorbitante di richieste di intervento rispetto ai tempi contingentati dell’ultima Assemblea Nazionale, molti contributi, compreso il mio, non sono stati esposti. Di seguito i temi che avrei proposto, che ritengo utili per il lavoro politico che ci aspetta.
Il tema del militarismo, dell’industrie militari e della tendenza alla guerra, come ultima ratio per la risoluzione della attuale crisi del Modo di Produzione Capitalistico, non è stato trattato in forma compiuta nelle nostre tesi per ovvii problemi di spazio, ma paventato come possibilità estrema al termine di quella che abbiamo definito come fase di “stallo” internazionale, caratterizzato da un equilibrio delle forze precario, data la diffusione del potenziale nucleare in molti paesi del mondo, anche tra quelli cosiddetti “in via di sviluppo”
Venuta meno in questa fase l’ipotesi trumpiana di isolamento internazionale del caduco imperialismo statunitense, con il corollario di spinte al conflitto diretto con le potenze avversarie, in primis Cina e Russia, ma anche contro il polo imperialista europeo, attraverso dazi e sanzioni e con il ritorno in patria di parte delle produzioni esportate all’estero durante la precedente fase di espansione determinata dalla dissoluzione dell’URSS, ci troviamo oggi di fronte al tentativo dell’amministrazione Biden di ricompattare il fronte occidentale intorno alla NATO, che però non può certo far tornare indietro le lancette della storia, ricomponendo enormi contrasti macro economici tra la potenza d’oltre oceano e una UE concentrata ad utilizzare tutte le crisi, compresa quella pandemica, al fine di costruire a tappe forzate un polo imperialista strutturato anche sul terreno militare, unica dimensione per poter competere nell’attuale scenario internazionale.
Dietro la facciata di unitarietà emersa recentemente dai summit del G7 e dagli incontri del segretario di stato in giro per i paesi europei e nelle colonie dell’est Europa, emergono lacerazioni e scontri di interesse che contrappongono ipotesi di sviluppo divaricanti, dal nord stream che dalla Russia porterà petrolio e gas in Germania, alla “via della seta” cinese, che vede interessati molti paesi europei, compresa la sempre prona Italia.
In questa opera è evidente il condizionamento statunitense verso i paesi dell’est confinanti con la Russia, che hanno recentemente fatto saltare il summit tra Putin e il gotha continentale europeo.
La forma con la quale Biden affronta la perdurante fase di nuova “guerra fredda” inaugurata da Trump, non ne cambia la sostanza, dalla definizione di Putin come un “killer” sino alle rinnovate recriminazioni rispetto al fronte ucraino, anche attraverso costanti provocazioni, come quella in corso nel mar Nero con le manovre militari “Sea Breeze”.
Contro la Cina valgono le rispolverate teorie antiscientifiche sulle origini del covid e le ben più pesanti presenze militari nel Pacifico e nel mar cinese meridionale, dove le portaerei a stelle e strisce solcano i mari come squali in agguato.
Dall’altra parte della nuova “cortina di ferro” gli antagonisti dell’imperialismo occidentale non stanno certo a guardare, adeguando il proprio arsenale militare e nucleare e sancendo accordi economici e militari di rilevanza strategica che vedono Russia e Cina sempre più uniti nel fronteggiare un nemico feroce e spregiudicato.
Siamo di fronte, quindi, ad un pericoloso crinale di tensioni potenzialmente esplosive, che vanno osservate con molta attenzione, a partire dalle forme concrete di riarmo della potenza europea, sino all’aumento delle spese militari previste nel PNRR italiano.
Per quanto riguarda il riarmo europeo e le politiche implementate dalla troika occorre citare brevemente il convegno di Eurostop del 29 gennaio 2020, promosso a poche settimane dall’esplosione del corona virus, facendo così cadere nel dimenticatoio uno sforzo analitico degno di nota, al quale riallacciarsi al più presto per aggiornare la nostra analisi su un tema che deve rimanere centrale nella nostra agenda politica
In merito alla costruzione del complesso militare industriale europeo, in quel convegno evidenziammo come tutti gli stadi di sviluppo per la costruzione di un polo imperialista siano stati raggiunti da tempo dal capitalismo europeo, ovviamente in forme asimmetriche, riproducendo a livello continentale centri e periferie in funzione della massimizzazione dei profitti dei cosiddetti “campioni” europei”.
Ad esso manca, per essere valorizzato al massimo nel conflitto con le altre potenze, un complesso militare/industriale adeguato al livello di sviluppo delle proprie forze produttive e finanziarie.
Da tempo, la Commissione Europea sottolinea le inefficienze e la frammentazione del settore militare. Il confronto con gli Stati Uniti salta agli occhi. L’Europa conta 178 sistemi di armamenti (rispetto a 30 negli USA), 17 tipi di carri armati (uno statunitense), 29 tipi di fregate e di cacciatorpediniere (4 USA), e 20 tipi di caccia (6 USA). Gli investimenti nella difesa dei paesi europei rappresentano nella media l’1,34% del prodotto interno lordo, mentre gli USA arrivano al 3,2% del Pil.
Vediamo brevemente come la UE sta cercando di risolvere questo gap, per rispondere ad un’esigenza non rinviabile, alla luce dell’aumento esponenziale dei fronti di guerra ai propri confini e a livello planetario.
Il 13 giugno 2018 la Commissione Europea ha presentato le sue proposte finanziarie nel campo della difesa e della sicurezza per il prossimo bilancio comunitario 2021-2027. Il nuovo fondo europeo per la difesa (EDF), avrà una dotazione settennale di 13 miliardi di euro, che significa un considerevole aumento di spesa rispetto 2,8 miliardi del precedente. Il fondo riserverà 4,1 miliardi per finanziare progetti di ricerca. Altri 8,9 miliardi andranno a co-finanziare il costo di prototipi, a cui si aggiungono circa 6,5 miliardi per adeguare le infrastrutture europee al transito di assetti militari (military mobility).
(…) il settore europeo della difesa (base tecnologica e industriale della difesa europea – edtib) ha un fatturato di circa 100 miliardi di euro e occupa direttamente circa 500.000 addetti. Ha una struttura piramidale, al cui vertice si colloca un limitato numero di grandi imprese. Lungo l’intera catena di approvvigionamento, queste imprese sono coadiuvate da circa 2 500 aziende di livello inferiore – per lo più aziende a media capitalizzazione e PMI – che forniscono agli appaltatori principali sottosistemi o componenti.
Il settore europeo della difesa non è diffuso in maniera uniforme nell’UE. Rispecchiando il livello dei bilanci nazionali, le industrie del settore si concentrano nei sei paesi della lettera di intenti firmata il 20.7.1998 per istituire un quadro cooperativo mirante ad agevolare la ristrutturazione del settore, ossia Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito, i quali generano oltre l’80 % del fatturato in questa branca dell’industria. Capacità e competitività del settore differiscono molto tra i vari stati membri e da un sotto settore all’altro. Questa base frammentata è il frutto delle culture geografiche, storiche e militari che hanno contribuito a modellare il panorama industriale dei vari stati membri. Alcuni studi hanno messo in rilievo i punti di forza del settore della difesa in Europa. Nel suo complesso è stata definita competitiva a livello globale, innovativa, a elevato livello tecnologico, in grado di fornire uno spettro completo di capacità di difesa, da piattaforme ampie e complesse fino a prodotti innovativi.
L’UE, benché ancora in ritardo rispetto agli Stati Uniti e alla Russia, rappresenta una quota significativa delle esportazioni totali di armamenti, a testimonianza della competitività della sua industria militare.
In questo anno e mezzo di pandemia e del collasso di vari sistemi sanitari la spesa militare ha continuato a crescere nel mondo al ritmo del 2,6%. In Italia quest’anno sfiora i 25 miliardi, con incremento dell’8,1%, primo committente l’Egitto di al Sisi.
Per quanto riguarda gli impegni per il presente ed il futuro riarmista del nostro paese parla il PNRR, come denunciano le poche realtà antimilitariste ancora attive in Italia, da Peacelink a Sbilanciamoci, che in questi mesi hanno evidenziato come nelle pieghe del piano siano previsti aumenti considerevoli di spesa in funzione del rafforzamento militare complessivo del nostro paese ed in sintonia piena con le richieste statunitensi/NATO del raggiungimento del 2% di spesa annua in materia.
Nelle commissioni di camera e senato si intende dirottare una parte dei fondi europei, verso la filiera militare delle armi., incrementando (cito) “la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto». E ancora: «occorre promuovere una visione organica del settore della difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali».
Si intende cioè utilizzare i fondi destinati alla Next Generation per una ristrutturazione “verde” del comparto industriale militare. Una operazione di greenwashing per produrre nuovi armamenti e aumentare ulteriormente i finanziamenti di un settore che già riceverà almeno il 18 per cento (quasi 27 miliardi di euro) dei fondi pluriennali di investimento attivi dal 2017 al 2034.
Così il governo Draghi lavora ad un piano che prevede l’acquisizione di nuove armi e un incremento della spesa militare.
Consigli interessati sono stati suggeriti durante le audizioni alle quali hanno partecipato rappresentanti dell’industria militare, la federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, l’associazione nazionale produttori armi e munizioni sportive e civili, e naturalmente il colosso industriale Leonardo Spa (da cui proviene il ministro della transizione ecologica Cingolani).
Se questo è il contesto internazionale, continentale e nazionale nel quale dovremo agire concretamente per sviluppare il nostro intervento diretto come soggettività comunista, non possiamo relegare ad una funzione ancillare la questione della lotta contro il militarismo e la guerra, ma orientare i nostri fronti di intervento politico, sociale e sindacale attraverso una costante e rigorosa analisi della tendenza alla guerra, elemento inscindibile dell’incedere della attuale crisi sistemica del MPC, riprendendo la parola d’ordine della “guerra alla guerra imperialista” nel vivo del conflitto politico e sociale.