Rete dei Comunisti
La Rete dei Comunisti dalla sua nascita nel 1998 ha mostrato un carattere specifico ed originale nella definizione della propria funzione politica e nella strutturazione dell’intervento concreto; la scelta all’epoca è stata quella di concepire un processo di ricostruzione di un punto di vista e di una organizzazione dei comunisti su quelli che sono stati sempre concepiti come i tre elementi fondanti della lotta di classe, ovvero quello teorico-ideologico, quello politico e quello sindacale-sociale. Tre fronti del conflitto di classe che decidemmo di trattare dando ad ognuno di questi una autonomia politico-organizzativa.
Questo approccio strategico certamente complicava il nostro agire concreto in quanto produceva una complessa relazione con la realtà ed era spesso incomprensibile ad una cultura politica dei comunisti, e tanto più del popolo della sinistra, abituati al “consumo” politico immediato dell’agire e dei progetti. Consumo finalizzato essenzialmente ai passaggi elettorali ed al ruolo nelle istituzioni.
La scelta di questa impostazione non ha inteso piegare la realtà al nostro “libero arbitrio” ma è fondata su una analisi della condizione storica che si era venuta a creare con la fine dell’URSS e del campo socialista. Tra le molteplici conseguenze che si erano determinate c’era anche quella di una, per noi, inevitabile modifica dei rapporti tra l’organizzazione dei comunisti e la realtà che negli anni ’90 andava mutando in modo radicale. La nascita di Rifondazione Comunista nel 1991 ci è sembrato – ma i fatti lo hanno confermato – che rimuovesse radicalmente una serie di nodi di fondo che non potevano essere ignorati, pena una crisi che prima o poi sarebbe arrivata.
Non ci sembrava adeguata una continuità automatica sul ruolo del partito e sulla sua azione rispetto a quella che era stata la fase precedente, che aveva visto nel partito di massa il punto più avanzato di sintesi dei progetti di trasformazione sociale rivoluzionaria. Questo era stato valido per il PCI (nella sua linea di mediazione concepita in un paese ai confini con l’est europeo ed in un quadro di guerra fredda) ma anche per le diverse organizzazioni della sinistra rivoluzionaria emersa dopo il ciclo di lotte del ‘68/’69. Quella fase di profonda trasformazione della società italiana fu attraversata da un conflitto di classe generalizzato ma anche da una ricca elaborazione teorica e culturale che in quel contesto definì con chiarezza profili e strategie politiche.
Dopo la fine dell’URSS gli effetti nel nostro paese si sentirono anche sull’esaurimento ed impoverimento della elaborazione complessiva che portò a vivere la dimensione istituzionale come prevalente ed allo sfilacciamento, via via sempre più forte e palese, delle relazioni organiche con il retroterra di classe e le sue trasformazioni che, unico, poteva mantenere in vita una prospettiva per le forze comuniste ma anche per quei settori politici di sinistra e democratici.
Il punto di fondo dal quale partimmo all’epoca è che ci sembrava che la sconfitta storica portava allo scompaginamento di quei tre fronti che per tutto il ‘900 avevano trovato una sintesi politica ed una capacità di azione e trasformazione. Lo scompaginamento prodotto era paragonabile ad una sconfitta militare che obbligava l’esercito in rotta ad una ritirata strategica ed ad una riorganizzazione che non poteva presupporre di nuovo ed in tempi rapidi battaglie campali.
Riproporre il partito di massa così come era stato precedentemente costruito, non fare i conti con gli effetti ideologici avuti sulla classe dagli eventi di quegli anni prima ancora che con le modifiche strutturali, lasciare l’elaborazione teorica alle posizioni dei “guru” della sinistra, dalla Rossanda a Ingrao fino a Bertinotti sostenuti da una pletora di supposti intellettuali, che ancora insistono nei resti del teatrino politico, semplicemente ci sembrava fuori dalla nuova realtà e inconsapevole delle brutali dinamiche che stavano maturando a livello internazionale. Dinamiche che hanno poi portato ad una profonda trasformazione della classe reale esistente nel nostro paese sul piano lavorativo, su quello economico ed infine su quello ideologico che ha sancito il superamento di una sinistra ossificata su quell’antiberlusconismo quale riflesso interiore della propria incapacità di capire e di teorizzare. Per questi motivi non aderimmo all’epoca al progetto della Rifondazione Comunista e per questi motivi compagni provenienti da percorsi diversi diedero vita alla Rete dei Comunisti.
Non è stata una scelta facile, tutt’altro. La nostra condizione di “diversità” ci portò a misurare il nostro progetto politico sui tre fronti lavorando su quei terreni che manifestavano già in quegli anni contraddizioni strutturali. Questo ci spinse a lavorare sul rafforzamento del rapporto organizzato ed indipendente con la classe tramite il sindacalismo di base e le lotte sociali, che avevamo comunque sempre praticato, come costruzione di una condizione materiale che ci permettesse di resistere nel tempo. Ci portò anche a fare uno sforzo di rielaborazione teorica perché eravamo convinti che solo da questa potesse emergere una via d’uscita, certamente non verso la rivoluzione ma verso una chiarezza sulle dinamiche che il capitalismo di nuovo egemone aveva messo in moto a livello mondiale ed entro ogni singolo paese.
La rilettura o, per molti di noi, la lettura critica dei testi classici del marxismo – dalla legge del valore e dei suoi effetti all’imperialismo di Lenin ed altri ancora – servì a ridefinire alcuni parametri teorici e storici sui quali, però, eravamo coscienti che sarebbe stato un errore pensare che quelle dinamiche si sarebbero ripresentate con le stesse forme di un secolo prima. La tenuta sul piano dei principi non poteva prescindere dall’analisi sistematica della realtà attuale e su come questa agiva su quei principi obbligandoli a manifestarsi con modalità nuove. A questa metodologia ovviamente non poteva sottrarsi la questione del Partito che doveva necessariamente collocarsi dentro una condizione caratterizzata da uno sviluppo forte del sistema capitalista a livello mondiale ed in uno dei paesi integrati nel nocciolo del sistema imperialista, in particolare in quello europeo, affermatosi dopo la fine dell’URSS.
Sulla ipotesi dei tre fronti il contributo più importante ci è venuto dagli scritti di Engels, dal CHE FARE? di Lenin e dagli scritti politici di Gramsci. Dalla lettura, contestualizzazione storica e comprensione di questi scritti, abbiamo cominciato ad elaborare traendo concrete indicazioni di lavoro nella prospettiva che ci eravamo dati.
L’introduzione di questa pubblicazione, è seguita infatti da alcuni testi che abbiamo utilizzato nelle e per le nostre elaborazioni. I testi riportati sono, a seguire: la Prefazione alla Guerra dei contadini in Germania di Engels del 1874, una parte dell’introduzione di Luciano Gruppi al Che Fare? di Lenin degli Editori Riuniti del 1970 ed un brano dello stesso scritto di Lenin; una parte tratta dagli scritti politici di Gramsci sulla scuola di partito; alcuni capitoli de Le ragioni dei comunisti oggi da noi pubblicato nel Maggio del 1994, la parte del Manifesto Politico della Rete dei Comunisti steso in occasione della Terza Assemblea Nazionale del 2011 relativa ai tre fronti della lotta di classe.
In questo tipo di approccio al processo di ricostruzione intrapreso prevale un aspetto dinamico rispetto ad uno schema statico; infatti la condizione concreta in cui siamo costretti ad operare, cioè quella di una autonomia politico organizzativa dei diversi punti di intervento, è naturalmente una condizione transitoria dovuta alle necessità interne al processo ma con l’obiettivo di ricostruzione di una sintesi. Sintesi obiettivamente e teoricamente necessaria ma che non può essere ricostruita sulla base di forzature soggettive e che deve seguire la manifestazione delle contraddizioni e gli spazi che queste creano nel loro sviluppo per produrre la necessaria sintesi. Tempi e modi non sono dati! Questo molto concretamente per noi significa misurare volta per volta come procedere per determinare la crescita specifica ed in autonomia dei tre fronti e come costruire quella sintesi che non può essere fatta in modo graduale o pianificato, che matura nelle modifiche delle condizioni oggettive ma che può anche ristagnare se l’oggettività lo determina. Centrale come si capisce è la capacità soggettiva di analizzare la situazione, le tendenze e di adeguare sistematicamente i livelli di organizzazione e di concepire sintesi più avanzate possibili.
Questa impostazione non è solo una metodologia da comprendere in via teorica è, invece, una esperienza concreta che abbiamo fatto e che abbiamo visto crescere e modificare sotto i nostri occhi. Ad esempio alla relativa “facilità” con cui abbiamo lavorato e prodotto risultati sul piano del conflitto sindacale-sociale e su quello della elaborazione teorica e della strutturazione diretta della Rete dei Comunisti è corrisposta una difficoltà strutturale ad avviare un discorso di carattere politico sulla questione della rappresentanza del blocco sociale (da non confondere con quella di una sinistra ormai esausta e rinnovabile solo se si mette a disposizione della rappresentanza politica dei settori di classe).
Nel corso degli anni abbiamo fatto diversi tentativi sul piano locale o nazionale, ma questi si sono infranti di fronte ad una impossibilità strutturale dovuta all’ipoteca sul “fronte politico” rappresentata dal PRC. La condizione in questo senso è cambiata all’improvviso dopo le elezioni del 2008 dove l’ipoteca elettorale della sinistra istituzionale è crollata all’improvviso, grazie non a noi ma al lavoro fatto dai “tarli” dell’elettoralismo che l’hanno divorata dall’interno nel corso del tempo. Oggi è chiara, per tutti quelli che vogliono vedere, la necessità di costruire una rappresentanza politica che sappia contrastare gli sviluppi generali attuali in rapporto stretto ed organico con i settori sociali penalizzati da questo sviluppo.
Un altro esempio che mostra come la nostra impostazione deve modificarsi dentro la dinamica del reale ci viene dalla relazione tra i diversi fronti del conflitto di classe. Abbiamo sempre meticolosamente, in modo quasi pignolesco, tenuto distinti gli interventi in questi settori sapendo che una relazione errata tra questi, ad esempio di tipo strumentale, avrebbe prodotto un arretramento ed una crisi del progetto. Abbiamo, infatti, teorizzato per anni la separazione tra la dimensione diretta della Rete dei Comunisti e l’attività sindacale-sociale perché giustamente consideravamo la dimensione del conflitto materiale di classe più avanzato della dimensione politica, schiacciata dai giochi partitico-elettorali e da una egemonia della borghesia ancora forte.
L’indipendenza totale del conflitto infatti permetteva di sedimentare forze ed organizzazione, mentre il rapporto tra questo e la “politica” produceva disgregazione e crisi della organizzazione sociale subordinandola ai diversi e variamente mutanti equilibri in campo. Per tutti questi anni la Rete dei Comunisti si è praticamente “messa a disposizione” del conflitto mettendo in primo piano non la propria identità strategica, come si è usi fare in “politica”, ma impegnando un intellettuale collettivo, i propri militanti e tutti i nostri strumenti a disposizione, a partire da quelli analitici, che esaltassero le possibilità che quella situazione produceva nel conflitto.
Questa condizione si è protratta per molti anni e, va detto, ha prodotto relativi “danni collaterali” in quanto la situazione concreta spesso ha portato a ribaltare la causa con l’effetto.
In altre parole la voluta non evidenza della Rete dei Comunisti e la priorità, storicamente corretta in quella fase, data al conflitto ha fatto percepire in subordine il ruolo politico dell’organizzazione, ruolo che invece va inteso nel suo senso militante, strategicamente motivato dentro un intellettuale collettivo, e dunque di effettivo promotore del conflitto che da solo non può generare un progetto organico e strategico.
La crisi dei partiti della sinistra ex parlamentare iniziata nel 2008, ha cambiato questa condizione. Gli spazi per una contrattazione sociale ampia si sono ristretti, basti pensare alle politiche dell’Unione Europea, e non esiste più una rappresentanza che, seppur se in modo distorto, crei una interlocuzione con il versante istituzionale. La pressione delle contraddizioni, ormai senza possibilità di soluzione, sta generando un processo di politicizzazione che inevitabilmente modifica e avvicina le relazioni tra i fronti della lotta di classe. Però si possono anche intravvedere alcune inversioni di tendenza dove la chiusura corporativa delle rivendicazioni, causata dalla enorme disparità dei rapporti di forza tra le classi, fa regredire quella funzione avanzata del conflitto sociale che avevamo individuato rischiando di invertire quel processo di sedimentazione delle forze, a tutti i livelli, che è l’obiettivo centrale che abbiamo in questa fase storica.
Questa modifica va analizzata e gestita trovando le risposte e gli adeguamenti organizzativi necessari che, è bene ricordarlo, non sono affatto scontati e vanno perseguiti e verificati nel nostro lavoro concreto e quotidiano. Tale è la sfida che abbiamo adesso di fronte e che non può trovare risposte solo nel nostro lavoro formativo ma nel vivo della nostra azione complessiva.