Guglielmo Carchedi, Lavoro mentale e classe operaia
L’analisi di Internet è associata alla nozione di ‘società dell’informazione’. Sia i critici che gli entusiasti della rete usano il termine informazione nell’accezione comune di comunicazione di conoscenza, intesa puramente come operazionale. Essa non ha né valori morali, né un contenuto sociale, di classe. Questa nozione riflette e riproduce il mito della neutralità della conoscenza. Ancor peggio. Nella teoria economica, l’informazione diventa un input del ‘capitale umano’, la massima espressione del connubio innaturale tipico della ideologia capitalista.
La conoscenza gioca un ruolo fondamentale in tutte le società. La specificità del capitalismo attuale è il ruolo del computer nella generazione e trasmissione della conoscenza nel capitalismo a cominciare dalla fine del ventesimo secolo.
L’origine sociale di internet come rete di computer e come tecnica di trattamento dell’informazione è ben nota: la guerra fredda. Questo è stato documentato ampiamente e non è oggetto di controversia. Piuttosto, la controversia riguarda se la generazione di conoscenza attraverso Internet (a) sia anche produzione di valore (sezione 6.1) e (b) se essa abbia un contenuto di classe (sezione 6.2).
6.1 Teoria del valore e Internet.
Prima di tutto bisogna distinguere fra tre gruppi di agenti che generano conoscenza attraverso l’uso di Internet. Il primo è composto dai lavoratori mentali. Essi fanno parte di un processo lavorativo mentale al servizio del capitale il cui fine è la generazione di valore e plusvalore (profitto). Il secondo è composto da coloro che pur non lavorando per il capitale, usano l’internet per fini di lucro. Essi sono piccoli imprenditori. Essi non sono qui considerati.
Il terzo è dato da chi non è al servizio del capitale e usa internet per altri fini (didattici, di ricerca, per divertimento, ecc.). In questo caso il termine ‘lavoratori mentali’ è improprio perché essi non sono al servizio del capitale. Il termine generalmente usato nella letteratura su Internet è utenti, un termine che suggerisce l’uso passivo di Internet, come se fosse possibile usare Internet senza usare e generare conoscenza. Il termine usato qui è agenti mentali, che suggerisce la generazione di conoscenza attraverso il suo uso non al servizio del capitale.
Per quanto riguarda la teoria del valore applicata alla produzione mentale specificamente attraverso l’uso di Internet, le questioni sono tre: (a) se e quando la conoscenza generata su Internet sia produzione di valore e plusvalore (sottosezione 6.1.1); (b) se la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo mantenga la sua validità in Internet (sottosezione 6.1.2), e (c) se anche la distinzione tra produzione e consumo sia ancora valida (sottosezione 6.1.3).
6.1.1 Il processo lavorativo e la produzione di valore in Internet.
Dato un sistema capitalista, la conoscenza derivante da un processo di generazione mentale è una merce.
Come tale, essa può avere un valore, anche se essa è intangibile (ma materiale). Come le merci oggettive – il prodotto del lavoro produttivo – devono essere distinte dalle merci fittizie, e cioè il prodotto del lavoro improduttivo nel commercio, finanza e speculazione, così è necessario distinguere lavoro produttivo da quello improduttivo nella generazione della conoscenza. La questione allora è: chi genera la conoscenza, e chi genera plusvalore?
I lavoratori mentali eseguono un processo lavorativo mentale che, svolgendosi in Internet, ha delle caratteristiche proprie. In Internet emergono nuovi processi lavorativi, nuove posizioni e nuove forme di sfruttamento.
Un primo aspetto sono le nuove organizzazioni del lavoro nel processo lavorativo mentale in Internet. Legault (2013, p.84) fa un esempio. Gli studi dove si sviluppano i video giochi usano tecnologie avanzate che cambiano rapidamente e che richiedono personale molto qualificato. L’elaborazione di ciascun prodotto è stipulata attraverso un contratto e diventa un progetto. I lavoratori mentali devono ultimare l’elaborazione entro il tempo stipulato.
Il processo lavorativo mentale è eseguito per conto del capitale. I lavoratori devono essere forzati o convinti a lavorare per il capitale. Ci devono essere quindi agenti del capitale il cui compito è di sorvegliare e controllare i lavoratori affinché essi lavorino al massimo delle loro capacità, cioè affinché essi producano con la massima intensità e per il massimo delle ore lavorative. Essi non partecipano al processo lavorativo (obbligano altri a lavorare) ma d’altro canto la maggior parte di essi non sono capitalisti, non hanno la proprietà dei mezzi di produzione. Essi sono strutturati in una gerarchia che va dal massimo manager al capetto. Essi eseguono quella che Marx chiama nel terzo volume del Capitale la funzione del capitale senza essere capitalisti.
Una rigida organizzazione gerarchica si addice male a un processo lavorativo che si basa sulla spontanea creatività dei lavoratori mentali piuttosto che sulla subordinazione imposta su di loro. Essi devono introiettare i fini del capitale e quindi devono poter prendere decisioni al di fuori di una rigida linea di comando. Ciò che è controllato periodicamente è solo il progresso del lavoro. La funzione del capitale assume la forma adatta a questo particolare processo lavorativo mentale. L’autocontrollo dei lavoratori, la funzione del capitale interiorizzata, è fondamentale. Ma non è sufficiente. Ci deve essere anche la funzione del capitale esterna, coercitiva, e possibili azioni disciplinari per quei lavoratori mentali che sono meno qualificati o addirittura non qualificati. Uno staff di ‘project managers’ monitora il progresso dei progettisti, li critica e li aiuta se necessario, e li paga quando il progetto raggiunge tappe fondamentali, chiamate pietre miliari (Legault, 2013, p. 86). Ma la grande autonomia dei progettisti, in effetti, è solo apparente, è un’autonomia disciplinata (Pitts, 2013, p.101) perché circoscritta entro i limiti imposti dal capitale. Il controllo della generazione della conoscenza va da un massimo di coercizione a un massimo di libertà disciplinata. La coercizione ha cambiato forma ma non è sparita.
Emergono anche nuove divisioni dei compiti. Consideriamo i lavoratori nei grandi motori di ricerca. Alcuni analizzano i blog, sia quantitativamente in termini di numeri di visitatori, sia qualitativamente in termini dei commenti fatti dai visitatori e quindi in termini delle loro idee, preferenze, ecc.; altri navigano la rete alla ricerca d’idee utili per campagne pubblicitarie, per esempio analizzando le chatlines; altri ancora trasformano questo materiale grezzo in conoscenza come merce da essere venduta per esempio alle ditte di pubblicità. Ciò è messo in evidenza da una ampia letteratura. Ma ciò che è omesso dalle analisi è che i lavoratori mentali col massimo di discrezione hanno una libertà disciplinata e fanno parte di una organizzazione strutturata di cui fanno parte anche mansioni meno qualificate o addirittura dequalificate.
Un secondo aspetto è se questo specifico tipo di processo lavorativo mentale sia generatore di (plus) valore. Il valore è lavoro astratto erogato nel rapporto di produzione capitalista.
Questo principio vale anche nella produzione di conoscenza. Il valore prodotto durante la produzione di conoscenza è dato dall’intensità e dalla lunghezza del lavoro astratto erogato, dato il valore della forza lavoro dei lavoratori mentali. Lo sfruttamento è quindi la differenza tra il valore prodotto e il valore della forza lavoro del lavoratore mentale. Le apparenze non devono ingannare. La rassegna di diverse ricerche dell’ultimo decennio non lascia adito a dubbi. Dietro l’apparenza di un lavoro flessibile e divertente si nascondono lunghe giornate lavorative (America Online è comunemente chiamato un ‘electronic sweatshop’), lunghe e frequenti ore di straordinari non pagati (Legault, 2013, p.79), e la massimizzazione dell’intensità del lavoro, per esempio facendo operare il lavoratore su diversi schermi di computer in modo da minimizzare il tempo morto tra una fase del processo lavorativo e l’altra (Pitts, 2013, p. 102).
Un terzo aspetto, la cosiddetta riduzione del confine tra vita lavorativa e vita privata merita un’attenzione particolare. Si pone l’accento sul fatto che i lavoratori risolvono ‘problemi creativi’ attinenti al loro lavoro nel loro tempo libero (Pitts, 2013, p. 95). In tal caso, non vi sarebbe più distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro. Ma queste sono ore di lavoro, anche se non pagate. Il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza lavoro rimane lo stesso. L’economia non aumenta il lavoro necessario per la produzione della forza lavoro. Il valore della forza lavoro è immutato.
Tale valore aumenta solo quando la riqualificazione della forza lavoro è il risultato di un maggior numero di ore che la società usa per la formazione della forza lavoro.
Finchè questo non è il caso non vi è maggiore sfruttamento perché mentre le ore lavorative aumentano, il valore della forza lavoro non aumenta. Questa maggiormente qualificata forza lavoro permette la produzione di una maggiore quantità degli stessi valori d’uso o di diversi valori d’uso. Nell’ambito della concorrenza capitalista, ciò significa una vendita di valori d’uso maggiore di quella dei concorrenti. Siccome i prezzi di prodotti simili tendono ad eguagliarsi, ciò permette l’appropriazione di plusvalore contenuto nel prodotto dei concorrenti. Ma qui si tratta di appropriazione di valore, non della sua maggiore produzione. Lo stesso vale per quei lavoratori mentali che fanno attività per il capitale nelle ore che dovrebbero essere il loro tempo libero, per esempio rispondendo da casa a email o tenendo la corrispondenza con i blogger.
Questo è anche il caso del telelavoro.
Quanto sopra richiama l’attenzione sulla questione della produttività nel lavoro mentale e se essa possa essere misurata. Per quanto riguarda la produttività nella produzione oggettiva, un certo valore è incorporato in un certo numero unità di output. Se la produttività – l’output per unità di capitale investito – aumenta, lo stesso valore è contenuto in un numero maggiore di contenitori di valore (valori d’uso). Il capitale che aumenta la produttività realizza – tramite la tendenziale perequazione dei prezzi all’interno di un settore – maggiori profitti perché si appropria di una parte del plusvalore prodotto da coloro che sono meno produttivi nello stesso settore quando i prodotti di quel settore sono venduti ad altri settori. Quindi, nella produzione di valori d’uso oggettivi, la produttività (valori d’uso oggettivi per unità di capitale impiegato in quella produzione) è calcolabile ed è essenziale per l’appropriazione di valore da parte dei leader tecnologici e quindi per incentivare l’applicazione di nuove tecnologie.
Ma la questione è se nella generazione di conoscenza la produttività possa essere calcolata perché i valori d’uso mentali (le caratteristiche di ogni tipo di conoscenza) di per sé non possono essere quantificati. La questione deve essere posta nel contesto di una economia capitalista. In essa, la conoscenza come prodotto, come output di un processo lavorativo mentale, è generata al fine di essere venduta. A tal fine deve essere incorporata in contenitori oggettivi (libri, giornali, CD, DVD, brevetti, ecc.). In breve, la quantificazione della conoscenza avviene attraverso la sua oggettivizzazione nei suoi contenitori oggettivi. Questo ci permette di calcolare la sua produttività, dato il capitale usato per la sua generazione.
Quindi, anche l’appropriazione di plusvalore può essere quantificata. L’oggettivizzazione della conoscenza è quindi della massima importanza per il capitale, per la competizione inter-capitalista, perché è la condizione per la sua misurazione. Ne consegue che l’effetto della generazione della conoscenza sulla sua produttività si può osservare solo quando essa viene oggettivizzata. Ma questa oggettivizzazione non è immediata.
Consideriamo un brevetto. Esso consiste della conoscenza e del suo contenitore oggettivo, per esempio uno o più fogli di carta. Sarebbe assurdo calcolare la produttività di quel processo lavorativo mentale a seconda del numero di fogli che lo contengono. Quel foglio di carta è solo il contenitore del brevetto. Non è l’oggettivizzazione della produttività della conoscenza in esso contenuta. È solo quando la conoscenza contenuta in un brevetto è applicata ad un ulteriore processo lavorativo che tale conoscenza influisce sulla produttività di questo ulteriore processo. Nel caso del brevetto, l’effetto della conoscenza sulla produttività e solamente posposto.
Facciamo un altro esempio. Gli ‘utenti’ (in effetti, agenti mentali) che guardano un film su internet (o alla televisione) incorporano (consumano) la conoscenza trasmessa dal film e quindi producono una loro nuova conoscenza (per esempio la loro opinione). Il capitale, per appropriarsi della loro conoscenza (se il film è piaciuto, a quanti, e perché), deve quantificarla. Per esempio, il numero degli spettatori che hanno guardato quel film e il loro giudizio. In tal modo il capitale sa se è piaciuto e a quanti.
Gli spettatori non producono valore. Sono i lavoratori mentali (al servizio del capitale che raccolgono ed elaborano quei dati) che producono valore perché sono essi che lavorano per il capitale. Il capitale si appropria dei dati estratti dai suoi lavoratori mentali e li vende.
Il capitale non vende gli spettatori, una tesi assurda proposta da alcuni.
Similmente, l’introduzione dei ‘bottoni sociali’ in Facebook serve a indentificare conoscenze sociali. Per il capitale l’individuazione di una conoscenza sociale, e quindi delle caratteristiche personali di chi ne è il rappresentante, è di ‘qualità’ superiore. Essa è un’aggregazione spontanea di agenti mentali che risparmia tempo e lavoro ai lavoratori mentali al servizio del capitale e che quindi risparmia costi per il capitale.
Quali alternative vengono proposte alla teoria del valore di Marx nell’ambito della produzione mentale? Per Jodi Dean (2010), “Come il capitalismo industriale si basava sullo sfruttamento del lavoro, così il capitalismo comunicativo si basa sullo sfruttamento della comunicazione.” Ma è ovvio che, dato che la comunicazione (conoscenza) è generata da produttori mentali, sono essi ad essere sfruttati. Pfeiffer, d’altro canto, sostiene giustamente che “allo stato attuale della ricerca, non si può affermare in maniera chiara e conclusiva che l’origine della creazione del valore è in effetti cambiata.” (2013, p. 19). E cioè che questa fonte è il lavoro (op.cit. p.26). Tuttavia, Pfeiffer erra nel non distinguere tra valori d’uso e valore.
Per Arvidsson e Colleoni (2012), la teoria del valore non è applicabile alla conoscenza e a Internet. Ma qualunque teoria essi critichino, non è quella di Marx. Per esempio, secondo questi autori, la nozione di sfruttamento in Marx sarebbe la seguente: “I lavoratori sono pagati meno del valore del loro lavoro” (p.138). Ciò ignora una delle basilari distinzioni di Marx tra lavoro e forza lavoro.
Inoltre, i lavoratori non sono pagati meno del valore della loro forza lavoro cosicché lo sfruttamento deriverebbe dal pagare la forza lavoro meno del suo valore. Piuttosto, essi sono pagati l’intero valore cosicché lo sfruttamento è la differenza tra il valore della forza lavoro e il valore da essa creato. Gli autori avrebbero fatto meglio a non scomodare Marx.
Cos’è dunque il valore per Arvidsson e Colleoni? È l’attaccamento affettivo a una merce, ad una marca. Una ditta più accumula “investimenti affettivi”, più vende. L’ottica è quella della ‘business school’ per cui il denaro realizzato è il valore prodotto. È l’ottica del capitalista tesa a massimizzare i profitti tramite la conquista di maggiori quote di mercato, creando una ‘fedeltà’ nel cliente per i prodotti della ditta. Questo approccio è del tutto sterile come spiegazione dell’economia. Per esempio, come può l’accumulazione di “investimenti affettivi” spiegare il ciclo economico e le crisi? È vero che gli autori sottolineano che “una tale legge del valore basata sugli affetti deve ancora essere formulata”. Ma è dubbio se questa legge potrà mai essere formulata e a cosa servirebbe.
6.1.2 Lavoro produttivo e improduttivo.
Come sottolineato più sopra, il processo di produzione capitalista ha una doppia natura. Da una parte, è un processo lavorativo (sia oggettivo che mentale) e cioè la trasformazione di valori d’uso (oggettivi e mentali) in nuovi valori d’uso.
Dall’altra, il lavoro per essere produttivo, cioè per produrre valore e plusvalore, deve trasformare valori d’uso per il capitale, e cioè per un tempo di lavoro maggiore di quello necessario per la riproduzione della forza lavoro. La funzione del capitale, qualunque sia la sua forma, è la condizione affinché ciò avvenga.
Nel processo lavorativo mentale, per definizione, vi è una trasformazione di una conoscenza in una nuova conoscenza. Si noti che una nuova conoscenza non è necessariamente una conoscenza diversa, un nuovo valore d’uso mentale. Una nuova conoscenza può essere la stessa conoscenza, lo stesso valore d’uso mentale, nuovamente prodotto. L’analogia è con i prodotti oggettivi. Un martello può essere riprodotto come una copia esattamente uguale dell’originale. Il valore d’uso dei due martelli è lo stesso. Tuttavia il secondo martello è nuovo, non è lo stesso martello, è un altro martello.
Nel capitalismo, la produzione di valori d’uso mentali (conoscenza) avviene per un tempo maggiore di quello necessario per la riproduzione della forza lavoro dei lavoratori mentali.
Come regola, quindi, la produzione di conoscenza per il capitale è anche produzione di valore e plusvalore. Ma vi sono eccezioni.
Consideriamo il processo lavorativo commerciale oggettivo (compra/vendita di valori d’uso oggettivi). La merce comprata e venduta non cambia. Non vi è trasformazione di valori d’uso oggettivi e quindi non vi è produzione di (plus)valore. Questo processo lavorativo è improduttivo. Esso è necessario per la realizzazione piuttosto che per la produzione di valore. Quindi, la produzione della conoscenza necessaria per questo processo è improduttiva di valore e plusvalore. Non vi è produzione di nuovi valori d’uso neanche nella redistribuzione. Lo stesso dicasi della conoscenza necessaria per la funzione del capitale e per la distruzione di valori d’uso oggettivi. In questi quattro casi non vi può essere produzione di valore anche se vi è trasformazione di valori d’uso mentali per il capitale.
Anche gli agenti mentali sono improduttivi ma in un senso diverso. Essi, non essendo al servizio del capitale, trasformano valori d’uso mentali ma per definizione non producono valore. La loro conoscenza è gratuita, non nel senso che non costa nulla (si pensi al logorio del computer, all’energia elettrica consumata, al logoramento degli edifici, ecc.) ma nel senso che, una volta prodotta, chiunque se ne può appropriare gratuitamente. E questo è quello che fa il capitale. In Internet questi capitali sono i motori di ricerca, come Google e Facebook, detti anche piattaforme. Attraverso loro, i lavoratori mentali (al servizio del capitale) accedono gratuitamente alla conoscenza (informazioni) reperibile su internet e generata dagli agenti mentali. Così facendo il capitale ha a sua disposizione informazioni private, nella forma di dati sui gusti, desideri, interessi, ecc. degli agenti mentali. Questi dati contengono valore e plusvalore solo se generati (raccolti e trasformati) da lavoratori mentali al servizio del capitale. Questi dati sono venduti ad altri capitali che li usano per pianificare campagne pubblicitarie e investimenti, per valutare l’affidabilità creditizia dei clienti, ecc. Inoltre, molte ditte rivendono queste banche dati ad altre ditte (ma questa attività non è produttiva). Le informazioni (dati) che sono trasformate in sorgenti di profitto non sono quelle generate dagli agenti mentali (esse non hanno valore) ma quelle dei lavoratori mentali che si appropriano della conoscenza degli agenti mentali e la trasformano per i fini di profitto del capitale. Il capitale si avvantaggia della conoscenza generata dagli agenti mentali anche quando si appropria delle innovazioni tecnologiche che essi producono o come quando gli hobbisti si trasformano in piccoli capitalisti.
Alcuni autori contestano che gli agenti mentali siano improduttivi. Fuchs (2010) ritiene il concetto di classe basato sullo sfruttamento ma, sulle orme di Toni Negri, vuole estenderlo oltre il lavoro salariato, all’intera società. Il plusvalore sarebbe creato in misura crescente nella sfera della riproduzione e del consumo oltre che nella produzione. Tutta la vita diventerebbe la sorgente di plusvalore. Questa nozione è assurda e si schianta contro l’osservazione che, se tutto il tempo fosse creazione di plusvalore, non si capirebbe perché i capitalisti si ostinino ad estendere le ore lavorative.
Da qui deriva la nozione di moltitudine. Secondo Fuchs, essa è un gruppo eterogeneo antagonista al capitale: “casalinghe, disoccupati, migranti, paesi in via di sviluppo, pensionati che lavorano nella riproduzione, studenti, e lavoratori precari e informali” (ibid). Fuchs aggiunge anche i manager, i supervisori e gli esperti (2010, figura 2). L’autore sembra essere all’oscuro del terzo volume de Il Capitale. In esso Marx spiega come i manager e i supervisori facciano la funzione del capitale (supervisione e controllo) senza essere capitalisti. Essi sono la longa manus del capitale e come tale antagonisti ai lavoratori e non ai capitalisti.
Ciò a parte, la nozione, mutuata dall’operaismo, che tutti – produttori, distributori, consumatori, debitori e creditori, controllati e controllori, ecc. – siano produttori di plusvalore, si basa su un errore elementare. Una cosa è la condizione per la produzione di plusvalore, un’altra è la sua effettiva produzione. Se tutto il lavoro è direttamente o indirettamente condizione per la creazione di valore e plusvalore, tutto il lavoro è anche condizione per la distruzione di valore e plusvalore.
Fuchs sostiene anche che, siccome gli utenti non sono pagati per la produzione di plusvalore, il valore della loro forza lavoro è nullo.
Quindi, tutto il valore da essi prodotto va al capitale, cioè è plusvalore. Il tasso di sfruttamento sarebbe quindi infinito (ibid). Il che significa che chi produce plusvalore vivrebbe d’aria. Inoltre, ci si trova dinanzi ad una meraviglia del cosiddetto ’capitalismo conoscitivo’: qualcosa che non ha valore (la forza lavoro degli utenti/agenti mentali) può produrre valore e plusvalore.
Passiamo dalla fantascienza alla scienza. Il capitale paga i lavoratori per lavorare, diciamo 8 ore al giorno. Il salario deve essere sufficiente per acquistare i beni necessari per la riproduzione della forza lavoro per 24 ore e per la sua erogazione per 8 ore. Supponendo un tasso di sfruttamento del 100%, 4 ore sono lavoro necessario per produrre i beni di sostentamento dei lavoratori (cioè per rigenerare la forza lavoro durante 24 ore) e 4 sono pluslavoro. Le 4 ore di lavoro necessario producono quei beni che rendono possibile anche attività di svago, comprese quelle su internet degli agenti mentali (diciamo 2 ore al giorno). Gli stessi individui che per 8 ore al giorno sono lavoratori (anche mentali) per 2 ore sono agenti mentali.
Il valore della loro forza lavoro è quello pagato in cambio delle 8 ore di attività produttive. Se anche per assurdo gli agenti mentali producessero valore, il denominatore del tasso di sfruttamento non sarebbe zero ma il valore della loro forza lavoro come lavoratori mentali. Ma come visto più sopra, essi non producono valore.
Appropriazione significa lavoro, cioè ci devono essere lavoratori mentali al servizio del capitale che si appropriano della conoscenza prodotta dagli agenti mentali per poi estrarne quei dati d’interesse per il capitale (indirizzi, preferenze, ecc.). Quando il capitale si appropria di quella conoscenza, impiega lavoratori e quindi investe capitale variabile. Il capitale sfrutta non gli agenti mentali ma i lavoratori mentali. La sorgente di profitto non è il lavoro mentale dei primi ma quello dei secondi.
La conoscenza generata dal lavoro degli agenti mentali è il materiale che è trasformato in merce e in profitto dal lavoro dei lavoratori mentali. Questo materiale ha raggiunto dimensioni enormi grazie al lavoro del ‘popolo di internet’. Quest’appropriazione conviene al capitale solo nel caso in cui i lavoratori mentali, per appropriarsi di tale conoscenza, debbano lavorare di meno del lavoro che essi dovrebbero impiegare per la generazione della stessa conoscenza. L’esistenza di agenti mentali non cambia il funzionamento e la natura del capitale. Più in generale, il libero flusso d’informazioni (degli agenti mentali) non modifica le tradizionali differenze di classe.
È chiaro quindi che se non si distingue tra lavoratori mentali e agenti mentali e se non si esamina il lavoro improduttivo nella conoscenza secondo i criteri della teoria del valore, diventa impossibile distinguere tra lavoro mentale produttivo e improduttivo. Ma sono i critici che falliscono, non la teoria del valore.
6.1.3 Produzione e consumo.
Un’altra linea di critica sostiene che Internet avrebbe reso obsoleta la distinzione tra produzione e consumo. Anche questa tesi si basa sulla cancellazione del tempo. Bisogna distinguere tra consumo produttivo e consumo improduttivo. Consideriamo la produzione oggettiva. Finché il processo lavorativo dura, il produttore (lavoratore) trasforma, e quindi consuma, i mezzi e gli oggetti di produzione.
Questo è un consumo produttivo perché crea un (nuovo) prodotto, anche se il suo valore d’uso è uguale a quello di un prodotto precedente (l’esempio del martello). A processo terminato, il prodotto è venduto e consumato. Se il prodotto entra in un susseguente processo produttivo, se diventa un mezzo o un oggetto di una susseguente produzione, vi è consumo produttivo. Nel caso contrario il consumo è improduttivo. Produzione e consumo improduttivo si susseguono nel tempo mentre produzione e consumo produttivo sono contemporanei. La tesi secondo cui la linea di demarcazione tra produzione e consumo si va affievolendo estende erroneamente la contemporaneità della produzione e consumo produttivo alla produzione e consumo improduttivo che invece si susseguono nel tempo.
Lo stesso vale per la generazione di conoscenza. La conoscenza come output di un processo può essere consumata improduttivamente da coloro che la acquistano senza che sia immessa in un susseguente processo capitalista. La conoscenza come output di un dato processo è consumata produttivamente (e quindi genera valore e plusvalore) quando entra in un susseguente processo capitalista come input.
Questa confusione è alla base della figura del prosumatore (colui che è allo stesso tempo sia produttore che consumatore). Un tipico esempio di ‘prosumatore’ è colui che specifica ad un produttore (capitalista) le caratteristiche che egli vuole che una certa merce debba avere, per esempio delle scarpe di una certa forma, di un certo colore, ecc., e che si impegna a comprarle a produzione ultimata.
Ciò è estremamente facilitato da Internet. Il ‘prosumatore’ sarebbe allo stesso tempo produttore e consumatore e la distinzione tra produzione e consumo sarebbe diventata invalida a causa di Internet. Tuttavia, chi indica le sue preferenze al produttore non è né consumatore(non può consumare una merce che non è stata ancora prodotta) né un lavoratore mentale (non è alle dipendenze del capitale).
Esso è un agente mentale la cui specificazione delle caratteristiche della merce da produrre è appropriata gratis dal produttore capitalista.
L’attuale agente mentale è il futuro consumatore (improduttivo). La concettualizzazione del prodotto da parte del futuro consumatore (attuale agente mentale) non ha valore, solo valore d’uso. Ma quando essa è fatta propria dalla ditta produttrice di quella merce, interviene il lavoro dei lavoratori mentali che se ne appropriano per conto del capitale e la inglobano (trasformandola) nella conoscenza necessaria per la produzione di quella merce.
Questa è produzione di valore e plusvalore.
L’agente mentale attuale è il futuro consumatore. Quest’ultimo sua volta può essere produttivo o improduttivo.
6.2 Classi e Internet.
È opinione diffusa che l’Internet elimini le distanze nella comunicazione, permetta un’informazione libera da restrizioni, e diffonda la conoscenza e la democrazia. Altri invece sostengono che la nuova tecnologia rafforza l’isolamento degli individui e le disuguaglianze sociali, sottomette i lavoratori al controllo costante dei capitalisti, e permette ai governi di spiare e manipolare i cittadini, i movimenti sociali e gli oppositori politici. Entrambe le parti sottolineano alcuni aspetti reali. Ma, nel contesto attuale, il punto non è fare una bilancia dei pro e dei contro come se la conoscenza non avesse un contenuto di classe. Il punto è che la conoscenza generata attraverso Internet è, come tutte le conoscenze, portatrice di due opposte razionalità. La cosiddetta ‘nuova società’ non è nient’altro che il capitalismo che genera nuovi processi lavorativi e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori mentali mentre l’informazione (e cioè la conoscenza) generata da questi lavoratori mantiene il suo contenuto di classe (si veda la sezione 6.1.1 più sopra).
Le analisi apologetiche di Internet sono strettamente connesse alla nozione della società dell’informazione e del capitalismo conoscitivo. Questi sono concetti ideologici. L’informazione è comunemente intesa come conoscenza operazionale. Da questa prospettiva, l’informazione non ha alcun contenuto di classe. Questo concetto riflette e riproduce il mito secondo cui la conoscenza è priva di un contenuto di classe. La nozione di società cognitiva è ugualmente ideologica. Come Henninger (2007, p. 173) sottolinea, l’immagine della società cognitiva è il modo in cui “certi settori relativamente privilegiati dei lavoratori del mondo” percepiscono il capitalismo contemporaneo. Anche se, per amore della discussione, tutti i processi lavorativi oggettivi scomparissero e rimanessero solo lavoratori mentali, le vecchie e debilitanti caratteristiche del capitalismo riemergerebbero, anche se in una nuova guisa, nei processi lavorativi mentali. Le pagine più sopra hanno considerato alcuni esempi.
Tutta la conoscenza deve essere analizzata in termini del suo contenuto di classe. Internet non è un’ eccezione. Esso è un particolare terreno di scontro conoscitivo. Esso è un insieme di rapporti e di processi mentali specifici la cui particolarità deriva dal loro essere collegati da una rete di computer in cui operano due gruppi di produttori di conoscenza. I lavoratori mentali producono il proprio assoggettamento e allo stesso tempo la resistenza contro quell’assoggettamento, entrambi circoscritti nella razionalità del capitale. Il capitale può stimolare la conoscenza dei lavoratori ma allo stesso tempo la sfigura a sua immagine e somiglianza.
Gli individui sono sia lavoratori mentali, durante il tempo lavorativo, che agenti mentali durante il tempo libero. La conoscenza generata quando sono lavoratori mentali non può che influenzare la conoscenza che essi generano quando sono agenti mentali. Ma è possibile che gli agenti mentali possano generare forme di conoscenza, anche se embrionali, veramente alternative al capitale. Ma queste sono solo forme embrionali. Un sapere radicalmente diverso può emergere solo da un processo di produzione oggettivo e mentale basato su una radicale riorganizzazione del processo lavorativo forgiato dalla razionalità del lavoro.
Nelle aziende di informatica, alcuni lavoratori mentali, la cui forza lavoro è altamente qualificata, possono e devono usare la loro creatività per risolvere problemi concettuali. In genere, questa è un’attività psicologicamente soddisfacente. Tuttavia, lungi dall’essere una pre-configurazione della classe lavoratrice del futuro, essi potrebbero essere considerati come una nuova forma di aristocrazia operaia. Nonostante i loro privilegi (anche finanziari) essi sono soggetti al dominio del capitale.
Non solo, devono applicare la loro creatività anche nel loro tempo libero non pagato.
Essi devono sviluppare quelle competenze che possono essere usate dal capitale, cioè le loro concettualizzazioni sono plasmate dalla razionalità del capitale. Inoltre quelle competenze sono soggette a dequalificazione e il loro posto di lavoro è soggetto agli alti e bassi del ciclo economico. Infine il loro tasso di sfruttamento può essere anche maggiore di quello di molti lavoratori nei processi lavorativi oggettivi (che essi ne siano coscienti o no).
Le investigazioni considerate più sopra hanno messo in luce novità specifiche. Queste novità sono le nuove bottiglie contenti il vecchio vino e cioè la doppia e contradditoria razionalità della conoscenza. Ciò non è sfuggito neanche ad una rivista come l’Economist: “La prosperità generata dalla rivoluzione digitale è andata a vantaggio quasi esclusivamente dei possessori di capitale e dei lavoratori altamente qualificati. Nelle tre decadi passate, la fetta del prodotto che è andata ai lavoratori è diminuita dal 64% al 59%. Nel frattempo, la fetta di reddito andata a favore del primo 1% in America è aumentata da circa il 9% negli anni 1970 al 22% di oggigiorno. La disoccupazioni è a livelli allarmanti nei paesi ricchi, e non solo per cause congiunturali. Nel 2000 il 65% degli Americani in età lavorativa era occupata. Da allora, la percentuale è caduta, sia negli anni favorevoli che in quelli sfavorevoli, al livello attuale del 59%” (2014). Questo è precisamente ciò che Marx avrebbe previsto.
Ma quello che l’Economist non menziona è che negli ultimi 30 anni il capitalismo cognitivo è stato messo alla prova da una serie di crisi, una peggiore delle altre. Dopo 15 anni di crescita esplosiva di Internet conosciuta come Web 2.0, l’economia mondiale non è mai stata in condizioni tanto gravi dalla crisi del 1929- 33. Marx lo avrebbe previsto perché egli, al contrario della tesi del capitalismo cognitivo, ha una teoria delle crisi.
E Marx avrebbe previsto anche questo: “I suicidi nei posti di lavoro stanno aumentando nell’economia globalizzata … Studi recenti negli Stati Uniti, Australia, Giappone, Corea del Sud, Cina, India e Taiwan mettono tutti in evidenza un forte aumento dei suicidi nel contesto di un generalizzato peggioramento delle condizioni di lavoro. I forti aumenti dei suicidi fanno parte di profonde trasformazioni nel posto di lavoro negli ultimi 30 anni.
Si può affermare che queste trasformazioni hanno le loro radici nel mutamento politico ed economico verso la globalizzazione che hanno cambiato radicalmente il modo in cui lavoriamo… il posto di lavoro è oggi caratterizzato da lavori insicuri, dall’intenso lavoro, da una ridistribuzione forzata delle mansioni, dal controllo sui lavoratori, e da una limitata protezione sociale e rappresentatività.
Contratti a zero ore sono la nuova norma per molti negli ospedali e nei settori della sanità” (Rawstory.com, Workplace suicides are sharply on the rise in the globalized economy, 17 Agosto 2016)
La sociologia contemporanea ha prodotto un gran numero di esempi di come l’interazione dei lavoratori mentali generi specifiche forme di resistenza contro il dominio del capitale e come l’interazione degli agenti mentali attraverso Internet generi percezioni di una struttura sociale basata sulla razionalità del lavoro.
Ma sarebbe un’illusione pericolosa pensare che una semplice moltiplicazione di questi tentativi possa condurre ad un cambiamento sociale se la relazione di produzione capitalista non è gettata nella pattumiera della storia.
Internet non cancella la divisione tra capitale e lavoro e quindi non cambia la legge del valore. Internet fornisce semplicemente una specifica arena globale per la produzione di conoscenza e, dunque, forma e rimodella in continuazione la moltitudine delle forme di manifestazione della contraddizione tra capitale e lavoro. La loro analisi non richiede che si scarti la legge del valore di Marx. Basta conoscerla e saperla applicare.