Capitale e natura – Prima parte – Capitolo 2
Questa parte del documento tende ad approfondire, anche se ovviamente non in modo esaustivo, le teorie marxiste sulle questioni ambientali, partendo proprio da Marx ed Engels stessi. Questo non come mero esercizio teorico e dialettico, ma come strumento di comprensione delle dinamiche attuali su questo argomento, e come base teorica per una pratica politica.
Analizzare gli scritti di Marx e di Engels, ma anche di Lenin, sia quelli direttamente indirizzati al rapporto uomo-natura e alla contraddizione capitale-natura, sia quelli apparentemente estranei, ci da l’esatta chiave di lettura dell’interpretazione di classe delle questioni ambientali e ci aiuta a comprendere meglio anche alcuni passaggi successivi di questo lavoro.
Come già detto, sia Marx che Engels hanno scritto molto su questo argomento, scritti, in molti casi, in passato volutamente o inevitabilmente “dimenticati” dal movimento operaio e di classe internazionale. Un limite questo al quale bisogna continuare a porre rimedio, non solo esclusivamente come necessità di onestà intellettuale, ma anche e soprattutto come visione nuova per la lotta politica dei comunisti nel conflitto capitale-lavoro e per la costruzione di una società post-capitalista.
Ma allora che cosa avevano detto veramente Marx ed Engels sui rapporti tra l’uomo e la natura? Intanto, cosa non da poco conto, si deve tener presente che erano contemporanei di grandi studiosi delle scienze naturali, “rivoluzionari” delle scienze, come ad esempio Darwin o il biologo tedesco Haeckel, lo studioso della “economia della natura” e “padre” della scienza dell’ecologia (da non confondere con l’ecologismo come ideologia ecologista). Se Marx ed Engels hanno certamente influenzato gli scienziati dell’ottocento, soprattutto attraverso il materialismo storico e il materialismo dialettico, da questi ne sono stati influenzati, per quello che comunque potevano essere le loro conoscenze delle scienze naturali e per quello che potevano essere quest’ultime nell’ottocento.
Marx, nei Manoscritti economi e filosofici del 1844 scrive (aveva 26 anni, Darwin aveva scritto da soli due anni alcuni saggi che abbozzavano le sue teorie ma non aveva ancora scritto L’origine delle specie, cosa che fece nel 1859, Haeckel non aveva ancora scritto nulla sulla scienza dell’ecologia): “L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze esistono in lui come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali. (…) Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è oggetto del sole, come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole. Un essere che non abbia la propria natura fuori di sé, non è un essere naturale, non partecipa all’essere della natura”. Con queste frasi non intendeva certo affrontare questi argomenti per formulare teorie scientifiche naturalistiche, ma certamente invece dal punto di vista filosofico, per sottolineare come l’uomo fa parte della natura, da essa dipende e con questa si deve necessariamente rapportare. Infatti prosegue: “L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce. (…) La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura”.
Del rapporto tra capitale e natura come elemento della proprietà privata, scrive: “Ogni estraneazione dell’uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro (…).
Quest’uomo è il “capitalista”, e la proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l’operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall’altro”. E del suo superamento scrive: “Il comunismo, in quanto soppressione della proprietà privata, è la rivendicazione della vita umana come sua proprietà, cioè il divenire dell’umanismo pratico (…). Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.
Se questi suoi scritti filosofici giovanili ci danno l’idea di come il rapporto uomo-natura in Marx era chiaro fin dal principio, questi vengono da lui sviluppati, insieme ad Engels, successivamente in modo più maturo.
Negli anni ‘70 dell’ottocento Engels comincia a scrivere saggi marxisti sulle scienze naturali, poi racchiusi nell’opera incompiuta Dialettica della Natura. In uno di questi, Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, scritto nel 1876, (Haeckel aveva da pochi anni formulato le sue teorie sulla scienza dell’ecologia e George Marsh aveva scritto una decina di anni prima Uomo e Natura) scrive: “Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”. E più avanti: “Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vede la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. (…) Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte ad un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto”.
Marx nel 1875, nella Critica al programma di Gotha, contesta fortemente che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, cioè quanto affermato dai socialdemocratici tedeschi. Infatti dice: “Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana (…). E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi di ricchezza, in quanto l’uomo è fin dal principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene”.
Ma Marx nel Il Capitale (Libro III) va più a fondo: “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive”.
Quanto fino ad ora riportato sono solo alcuni esempi (ce ne sarebbero molti altri) di scritti di Marx ed Engels che riguardano direttamente il rapporto tra uomo e natura e società e ambiente che, oltre a dare l’idea del loro approccio diretto a questi temi, sfatano l’erroneo pensiero che questi non si siano occupati dell’uomo in rapporto con la natura nei loro scritti filosofici ed economici.
Ma ancora più interessante è analizzare le loro teorie che apparentemente non riguardano questi argomenti, ma se a questi applicati ci fanno comprendere perfettamente il motivo della contraddizione capitale-natura nel conflitto capitale-lavoro.
Sappiamo perfettamente quanto sia importante nel pensiero di Marx ed Engels l’approccio materialista alla storia e alla dialettica, è quanto questo sia stato necessariamente e fondamentalmente determinante, nel pensiero e nell’azione, in tutti i marxisti nelle epoche successive fino ad oggi, e quanto noi da questo non possiamo prescindere. Il materialismo storico di Marx ed Engels è l’idea della storia come processo; la chiave di spiegazione dei processi della storia vanno ricercati nelle condizioni materiali di vita degli uomini e nella produzione e riproduzione sociale di queste condizioni, la storia è il risultato delle condizioni sociali sull’uomo e dell’azione dell’uomo sulle condizioni sociali.
Marx ed Engels nel 1845 scrivono L’ideologia tedesca che contiene la prima formulazione organica della concezione materialistica della storia. In questo, tra le altre cose, dicono: “Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini”.
Questa frase, sviluppata poi in altri passaggi del loro lavoro, è eloquente e al contempo sorprendente per la sua anticipazione a quelle che in seguito saranno le teoriche delle scienze ecologiche. Il primo presupposto della storia è la condizione ecologica in cui gli uomini vengono a trovarsi, e che modificano con la loro azione.
Il materialismo storico ha dunque un’ambivalenza, cioè l’unita dialettica di due aspetti fra loro strettamente intrecciati e non separabili: il rapporto tra uomo e natura e il rapporto intraspecifico, cioè tra uomo e uomo all’interno di una società. In quest’ultimo sta la lotta di classe, intesa anche e soprattutto come lotta per l’appropriazione delle condizioni di produzione e quindi dell’uso della natura. Cioè l’uso della natura come strumento del capitale o come strumento nell’interesse dell’Umanità. Se la storia degli ultimi duecento anni è la storia moderna del capitalismo e della sua civiltà, solo da questo si può capire come il modello di produzione capitalista sia il vero punto da cui partire per analizzare le problematiche ambientali passate e attuali.
Il sistema capitalistico attua due aspetti tra loro legati: il processo di produzione, nel quale si trova lo sfruttamento della natura, e i rapporti sociali di produzione, nei quali sta il conflitto con il lavoro. “Ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società” (C. Marx). Anche se oggi forse useremmo meglio la parola “uso” anziché “appropriazione”, la sostanza non cambia.
All’interno del processo di produzione capitalistico si realizza la produzione e la valorizzazione, dove il valore d’uso (nel quale c’è la natura e la forza lavoro) diventa valore di scambio che si tramuta in accumulazione del capitale. In questo il capitalismo non ha preoccupazioni rispetto all’uso della natura e quindi non conosce limiti. In questa chiave si può comprendere lo sfruttamento senza limiti delle materie prime naturali da parte del capitale, e la sua produzione delle merci che non tiene conto degli effetti di impatto ambientale.
Solo per fare un esempio, per produrre una sola automobile, in tutte le sue fasi produttive, servono circa 150.000 litri di acqua e si immettono nell’atmosfera circa 15.000 kg di CO2.
Come non conosce limiti nella circolazione delle merci.
Nel processo nel quale il valore d’uso dei beni prodotti diventa valore di scambio e quindi valorizzazione del capitale e accumulazione, risiede la rotazione del capitale.
I beni prodotti hanno un valore d’uso nella proprietà di essere utili, di soddisfare i bisogni umani; hanno invece un valore di scambio nella proprietà di essere scambiati con un valore equivalente, che nel sistema capitalistico significa denaro. Il capitale ha quindi la necessità prima di tutto di tramutare i beni prodotti in merci che abbiano quindi un valore di scambio in denaro, di valorizzare il capitale attraverso lo sfruttamento della natura e il pluslavoro. Ma ha anche la necessità di compiere la fase ultima della rotazione del capitale, attraverso la circolazione delle merci e quindi la commercializzazione di queste.
Anche se è nella produzione di una merce che risiede il profitto e non nella commercializzazione, più sarà rapida la sua circolazione e la sua commercializzazione più cicli di rotazione del capitale si compiranno e quindi maggiori saranno i profitti.
“L’azione della rotazione sulla produzione del plusvalore e del profitto che è stata trattata nel libro secondo, in breve può essere così ricapitolata per effetto dell’intervallo di tempo indispensabile per la rotazione: a) l’intero capitale non può essere tutto contemporaneamente impiegato nella produzione; una sua parte si trova pertanto permanentemente in riposo, o nella forma di capitale monetario, di materie prime in magazzino, di capitale merce pronto ma ancora invenduto, oppure di titoli di credito non ancora scaduti; b) il capitale operante nella produzione attiva, cioé nella produzione ed appropriazione del plusvalore, viene costantemente diminuito di questa parte e nella stessa proporzione viene costantemente ridotto il plusvalore prodotto ed acquisito. Quanto più è breve il tempo di rotazione, tanto minore diventa tale quota inoperosa del capitale, in rapporto al totale e, restando invariate le altre circostanze, tanto maggiore il plusvalore acquisito. Nel libro II si è pure dimostrato come la riduzione del tempo di rotazione, ovvero di una delle due fasi, il tempo di produzione ed il tempo di circolazione, accresca la massa del plusvalore prodotto. Poiché il saggio del profitto esprime soltanto il rapporto della massa del plusvalore prodotta rispetto al capitale complessivo impiegato in quella produzione, è evidente che ogni riduzione del genere accresce il saggio del profitto.(…) Il mezzo principale per la riduzione del tempo di circolazione sta nel perfezionamento delle comunicazioni”. (C. Marx, Il Capitale, libro III, sezione I, capitolo 4).
In questo si comprendono ad esempio molti aspetti delle questioni ambientali che riguardano il sistema dei trasporti e delle comunicazioni tradizionali e di nuova generazione. Ma se ne comprendono anche altri, come ad esempio la produzione dei rifiuti, e quindi la necessità del loro smaltimento, in un sistema che accelera la circolazione delle merci e la riduzione, indotta o reale, della vita di queste, accelerando quindi il loro consumo.
Se Marx ed Engels ci fanno comprendere le questioni ambientali nel conflitto capitale-lavoro, Lenin ci permette di capire ancora meglio l’attuale fase di mondializzazione del capitale (la cosiddetta impropriamente “globalizzazione”) e quindi della globalità di questo conflitto.
“Abbiamo visto come l’imperialismo, per la sua natura economica, sia capitalismo monopolistico. (…) Si devono distinguere particolarmente quattro tipi principali di monopolio e quattro principali manifestazioni del capitalismo monopolistico che caratterizzano il corrispondente periodo. Primo: il monopolio sorse dalla concentrazione della produzione in uno stadio assai elevato di essa. (…) Secondo: i monopoli condussero all’accaparramento intensivo delle principali sorgenti di materie prime, (…) Terzo: i monopoli sorsero dalle banche. Queste si trasformarono da modeste imprese di mediazione in detentrici monopolistiche del capitale finanziario. (…) Quarto: il monopolio sorse dalla politica coloniale. Ai numerosi “vecchi” moventi della politica coloniale, il capitale finanziario aggiunse ancora la lotta per le sorgenti di materie prime, quella per l’esportazione di capitali, quella per le “sfere d’influenza”, cioè per le regioni che offrono vantaggiosi affari, concessioni, profitti monopolistici, ecc., (…)”. (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916).
Pertanto l’imperialismo è uno sbocco necessario al capitalismo, è la sua fase suprema inevitabile. E’ la fase in cui ha necessità di stabilire il dominio sul mondo, non come necessità politica, ma come necessità economica attraverso quella politica e militare. E’ lo sfruttamento monopolistico delle risorse naturali mondiali e necessità per la mondializzazione dei capitali delle oligarchie finanziarie. Da qui la mondializzazione della forza-lavoro, la delocalizzazione della produzione, la circolazione mondiale delle merci, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista ambientale e socio-economico. Per far questo si è dotato di strumenti sovrannazionali come il WTO, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la CEE, la NAFTA, ecc.
In questa chiave si deve leggere la distruzione della natura su scala mondiale, lo sfruttamento senza limiti delle risorse energetiche, l’inquinamento atmosferico che Evo Morales ha definito “colonizzazione dell’atmosfera”, l’emigrazione, lo sfruttamento globale della forza-lavoro.
Come già detto, quindi, il capitalismo non conosce (riconosce) limiti nella produzione e circolazione delle merci, tantomeno quelli dello sfruttamento della forza lavoro e della natura, se non in quelli determinati dall’insostenibilità dei costi o in quelli determinati dalla lotta di classe. Questo è reso ancora più chiaro proprio da una visione marxista della contraddizione capitale-natura nel conflitto capitale-lavoro, a partire dagli stessi Marx, Engels e Lenin che non erano affatto alieni a questo argomento.