Capitale e natura – Prima parte – Capitolo 3
Ma se Marx ed Engels, come abbiamo visto, erano pienamente dentro, direttamente e indirettamente, alle questioni ambientali, quanto lo è stato il movimento operaio e comunista del ‘900? Qui si aprono luci ed ombre e forse, onestamente, più ombre che luci.
Alla base di questo c’è innanzitutto un primo errore teorico fatto da alcuni marxisti, i quali hanno interpretato il materialismo storico meramente come rapporto tra uomo e uomo. Un secondo errore teorico sta nella lettura di Marx ed Engels, quando parlano della potenzialità della scienza e della tecnica, come fautori dello sviluppo illimitato delle forze produttive, interpretandoli in senso esclusivamente quantitativo. Su questo non si è avuta invece una lettura del significato qualitativo di tali teorie, come sviluppo delle conoscenze in quanto patrimonio e ricchezza dell’Umanità, come liberazione sociale, come strumento nella capacità di adattare i propri comportamenti sociali alla natura, come miglioramento delle qualità fondamentali della vita.
Oltre ad errori di tipo teorico, altri sono stati di tipo storico.
Nell’Unione Sovietica e nei paesi del cosiddetto socialismo reale, cioè in quei paesi occidentali dove il socialismo e stato realizzato, la sensibilità ambientale è stata spesso sacrificata. Eventi storici come la seconda guerra mondiale, l’accelerazione del capitalismo all’industrializzazione prima e al post-fordismo poi, l’inizio del neoliberismo e dell’attuale mondializzazione del capitale, hanno infatti indotto i paesi del socialismo reale a non ritenere prioritaria la salvaguardia della natura in nome della competizione con il capitalismo, soprattutto dalla seconda metà degli anni trenta in poi. Lo sviluppo delle forze produttive, seppur di proprietà sociale e non finalizzati all’accumulazione borghese, sono spesso avvenute con gli stessi meccanismi del capitalismo, seppur finalizzate alla liberazione dal bisogno e per la soppressione dello sfruttamento. Questo ha significato soprattutto lo sviluppo, e a tappe forzate, dell’industria pesante, che ha prodotto lo sfruttamento eccessivo della natura per l’approvvigionamento delle materie prime e delle risorse energetiche, inquinamento, sviluppo tecnologico pericoloso per la natura come ad esempio l’energia nucleare. Anche se non con gli stessi meccanismi di valutazione come quelli capitalistici del PIL, lo sviluppo in URSS ha spesso assunto un valore quantitativo.
Va detto però anche, e non è di poca importanza, che fu Lenin nell’aprile del 1919 (solo un anno e mezzo dopo la rivoluzione) ad istituire sul delta del Volga il primo Parco Nazionale dell’Unione Sovietica e di tutta la storia dei suoi territori (in Italia il primo Parco Nazionale fu istituito nel 1922, 61 anni dopo l’unità). Nella seconda metà degli anni venti, con il varo della NEP, le aree protette integrali, cioè quelle interamente sottratte alle attività umane e riservate alla sola ricerca scientifica, raggiungono una superficie di 40 mila kmq. Nuove importanti leggi in quegli anni vengono varate in Unione Sovietica, come ad esempio il “Codice forestale” ispirato a una gestione razionale e sostenibile delle foreste, o quello del ’24 sulla caccia che ha lo scopo della gestione sostenibile della fauna. Cattedre di ecologia vengono istituite un po’ in tutte le principali università e la conservazione viene inserita nei programmi scolastici. Nel 1924 il commissariato all’istruzione crea la Società Panrussa di conservazione. Nel 1925 viene istituito il Goskomitet, comitato statale incaricato di sovrintendere e coordinare la politica di protezione della natura.
Se questo è avvenuto in Unione Sovietica, altrettante ombre e qualche luce si possono evidenziare nel movimento operaio dei paesi capitalisti. Il movimento operaio e i comunisti hanno vissuto, con intensità diversa in funzione delle loro fasi, una prevalente disattenzione, in qualche caso avversità, alle questioni ambientali. Spesso infatti quest’ultime sono state “sacrificate” sull’altare di una visione sviluppista, e in qualche caso ritenute limitanti al raggiungimento delle aspirazioni del lavoro.
Il movimento operaio e sindacale ha ritenuto per anni che le questioni ambientali potessero essere un ostacolo alla crescita industriale e quindi un ostacolo all’occupazione e al benessere.
Storicamente, i principali movimenti ambientalisti hanno avuto una connotazione borghese e quindi, anche solo per questo, visti con sospetto dal movimento operaio e dai comunisti. Il movimento operaio e i comunisti non hanno affrontato le questioni ambientali anche perché non stimolati dall’esistenza di un movimento ambientalista anticapitalista, cioè capace di porre il rapporto uomo-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro. Il movimento ecologista, anche se non anticapitalista, dal canto suo non ha mai avuto la capacità e la volontà di dialogare con il movimento operaio, e quindi di “condizionarlo”, perché vedeva in quest’ultimo, date le posizioni sviluppiste, un avversario.
Nel 1981 il PCI votò a favore del Piano Energetico Nazionale che prevedeva la costruzione delle centrali nucleari (contraria la FGCI).
Nel 1987 (il disastro di Cernobyl avvenne nel 1986) il PCI, inizialmente sostenitore dei NO, solo all’ultimo momento, sopratutto per opportunismo politico temendo l’ormai scontata vittoria dei SI promossi dai Radicali e dal PSI e quindi le conseguenze politiche di tale vittoria di questi due partiti, si schierò, insieme anche alla DC, a favore dei SI ai tre referendum sul nucleare.
Il PCI, nel 1990, si schierò di fatto per l’astensione, e quindi puntando al non raggiungimento del quorum, come difatti avvenne per la prima volta in Italia, ai referendum contro la caccia.
Non da meno fu la sinistra extraparlamentare, sopratutto nella prima metà degli anni ’70, che ignorò le questioni ambientali, e quando non lo fece le definì come il tentativo del capitale di distogliere l’attenzione dallo sfruttamento sull’operaio.
Di contro va detto che negli anni ’70 e 80′, sopratutto sull’onda emotiva dei disastri di Seveso prima e di Cenrnobyl poi, da una parte il movimento sindacale svolse alcune battaglie per il miglioramento delle condizioni e della sicurezza nell’ambiente di lavoro e per i rapporti fra le nocività dentro la fabbrica e quelle che si estendevano all’esterno, e dall’altra la sinistra extraparlamentare diede attenzione e partecipò al movimento antinucleare, osteggiato dal PCI e dai sindacati. Esperienze importanti ma comunque limitate, quantitativamente e qualitativamente.
E’ solo in questi ultimi dieci anni che si sta affermando un’attenzione significativa, dal punto di vista qualitativo, ai problemi ambientali da parte dei marxisti e di alcuni settori comunisti e del sindacalismo di classe, con una rilettura delle teorie marxiste e un tentativo di coniugare queste all’attuale rapporto del capitale con la natura. Questo grazie da una parte alla scomparsa dei partiti e dei movimenti verdi, dall’altra grazie ai disastri socio-economico-ambientali del cosiddetto sviluppo legato all’attuale fase della mondializzazione del capitale e all’acutizzarsi della sua crisi, che trova molte delle sue contraddizione maggiori nei problemi con la natura e nella nascita di movimenti locali, nazionali e internazionali, sulle questioni ambientali.
Ma il dibattito è tutto aperto, sia per l’ancora spesso genericità di questa attenzione e di questa analisi, sia per la difficoltà degli analisti di saper compiere una sintesi tra le scienze politiche e quelle naturali, sia per quella di saperla tramutare in pratica politica.