Capitale e natura – Prima parte – Capitolo 4
Come già detto, stiamo assistendo in questi ultimi 3-4 anni all’apice di quella che può essere considerata la crisi economica più forte di questi ultimi cento anni. Un apice che si sta manifestando ora nella sua forma più violenta, ma che ha origine da molto più lontano. Una crisi che non può essere semplicemente definita né contingente né solo strutturale, ma decisamente sistemica, che si accompagna a quella della civiltà capitalista. Il Modo di Produzione Capitalista, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista dell’organizzazione sociale e politica, sta manifestando, forse come mai successo prima, le sue più acute contraddizioni. Tra queste, quelle generate tra il capitale e la natura sono decisamente tra le più eclatanti e caratterizzano fortemente il conflitto capitale-lavoro.
Il capitalismo non solo include la natura, ma anche la subordina ai disegni della produzione del plusvalore e della valorizzazione del capitale.
Per compiere il suo fine, l’accumulazione attraverso il plusvalore, realizza la cosiddetta rotazione del capitale che si compie sostanzialmente di tre fasi: produzione delle merci, circolazione delle merci, commercializzazione delle merci. In ognuna di queste tre interagisce con l’uomo e con la natura, compiendo l’assoggettamento e lo sfruttamento del primo e l’assoggettamento e la distruzione della seconda.
Per la produzione, oltre alla forza lavoro, usa il resto della natura (anche la forza lavoro dell’uomo fa parte della natura). Le fonti naturali, oltre alle materie prime e alla forza lavoro, di cui la produzione ha bisogno sono quelle energetiche e l’acqua (anche l’acqua è una fonte energetica, ma è anche assolutamente necessaria come elemento tale). L’approvvigionamento e il controllo di queste diventano quindi strategiche per la produzione. Non esiste fonte energetica che, direttamente o indirettamente, non abbia a che fare con la natura. Solo per fare alcuni esempi: il petrolio, il metano, il carbone sono dei “fossili” naturali, sono esauribili e devono essere estratti; l’acqua sulla terrà è il prodotto di un ciclo naturale che per diventare energia ha bisogno di impianti che la generano (impianti idroelettrici), sfruttando la sua accumulazione (bacini artificiali e dighe) e la sua forza, modificandone il suo stato.
Il capitale include e subordina la natura, piegandola alle sue necessità: la produzione capitalista si nutre di un mondo naturale a lui necessario su grande scala e quindi sempre più mercificato. In questa sussunzione la natura si presenta come una forza produttiva del capitale.
La produzione (sarebbe meglio dire la lavorazione) è necessaria all’uomo, indipendentemente dal suo modo di produzione, come è necessaria, in forme e modi diversi, a qualunque altro essere vivente. Ogni essere vivente compie produzioni, che hanno come fine la sua vita come individuo finalizzata al perdurare della sua specie. Nel fare questo genera prodotti e “scarti” della produzione. Nel produrre interagisce inevitabilmente con il resto della natura. Una pianta, ad esempio, produce il suo nutrimento attraverso la fotosintesi e per fare questo usa energia solare, acqua e sali minireali, anidride carbonica. Genera la linfa che fa accrescere la sua massa e, come scarti di questa produzione, produce ossigeno e materia organica morta frutto della fine della sua vita o di parte di essa. L’ossigeno e la sua massa, sia viva che morta, sono utili ad altri esseri viventi, e quindi genera, in ultima analisi, prodotti e non scarti come siamo noi abituati ad intenderli.
E’ quindi evidente che il problema non sta nella produzione, ma nel modo di produzione. Nessun bosco naturale si espanderebbe così tanto da generare una produzione che impoverirebbe il proprio ambiente di anidride carbonica, di sali minerali e di energia solare, come non genererebbe mai una sovrapproduzione di massa e di “scarti” tale da non poter essere assorbiti dal suo ambiente, è l’ambiente stesso che glielo impedisce. L’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, ha un’etica e una morale diretta e consapevole, ha una conoscenza della scienza e della tecnica che gli permette, in molti casi, di poter andare oltre il condizionamento naturale degli equilibri degli ecosistemi. Il sistema capitalista non si fa condizionare da questi equilibri e non fissa un limite alla sua produzione, in quanto il suo fine è generare valorizzazione del capitale, profitto e accumulazione.
Lo stesso vale per la circolazione delle merci. Questa, a differenza della produzione, non è una necessità naturale e precostituita dell’uomo, dipende dalla sua forma organizzativa sociale, e quando ne ha necessità è l’organizzazione sociale che ne determina il suo modo e la sua forma. Un altro animale, ad esempio, per procurarsi e consumare cibo, o per compiere la sua riproduzione, non impiegherebbe mai più energia di quanta ne acquisisce da quell’atto.
Anche in questo caso, quindi, è evidente che il problema non sta nella produzione, ma nel modo di produzione e nella organizzazione sociale che determina la necessità della circolazione delle merci e della sua forma e modo.
Le merci, nel sistema capitalistico, hanno bisogno di circolare, come hanno bisogno di circolare i mezzi di produzione quali la forza lavoro, le materie prime, l’energia. La circolazione delle merci in questo sistema economico/sociale è necessaria alla loro valorizzazione e commercializzazione. Se, ad esempio, il capitalismo produce automobili in Burkina Faso, perché le condizioni di produzione gli sono più favorevoli, lì quelle auto per lui non valgono nulla perché non le comprerebbe nessuno, per dargli valore e per poterle vendere devono, ad esempio, arrivare in Europa, o in Asia o in Sud America. Oltre a farle circolare, il capitalismo, ha necessità di farle circolare in fretta, per diminuire il più possibile i tempi di rotazione del capitale. Anche in questo caso, quindi, la produzione capitalista non si pone limiti, non può farlo altrimenti non compirebbe il suo fine e quindi, anche in questo caso, include e subordina la natura.
Tutto ciò vale anche per la commercializzazione delle merci. Anche la commercializzazione delle merci, a differenza della produzione, non è una necessità naturale e precostituita dell’uomo, la sua necessità naturale è acquisire prodotti e cederne, la “commercializzazione” dipende dalla sua forma organizzativa sociale, e anche in questo caso è l’organizzazione sociale che ne determina il suo modo e la sua forma.
Ogni essere vivente ha bisogno di prodotti o di “materie prime” per la sua produzione, i quali spesso ha necessità di acquisirli da altri essere viventi e non viventi (dal proprio ecosistema) e a questi cederne degli altri, ma non acquisisce mai più materia e più energia di quanta ne impiega, come non ne cede mai di più di quanta il proprio ecosistema ne ha bisogno.
La terza fase, quindi, della valorizzazione materiale del capitale e di quella concettuale del dogma del PIL, e quindi della realizzazione del profitto, sta nella commercializzazione delle merci. Per fare questo il capitale ha bisogno di far attribuire alle merci un valore di scambio, facendogli perdere il valore d’uso. Anche in questo non si pone limiti. Le merci devono essere vendute, indipendentemente se sono, in quel dato momento, il quel dato luogo, a quella data persona, utili, induce al bisogno e al consumo, in una sola parola: il consumismo. Non importa se anche questo significa distruzione della natura: anche in questo caso la sussume. Il solo limite che ha è il prezzo, che è determinato dalla necessità di valorizzazione del capitale: se il mercato genera un prezzo di vendita di una determinata merce che non valorizzi il capitale, per il capitalismo la merce non dovrebbe essere venduta.
L’attuale crisi economica del sistema capitalistico, dovuta all’interruzione dei processi di accumulazione del capitale e generata anche dalla sovrapproduzione, si manifesta in modo violento diventando crisi globale ed evidenziando inequivocabilmente la sua crisi sistemica.
La crisi non è generata da una scarsità di domanda che non assorbe quindi la produzione, risolvibile accrescendo la capacità di consumo, spostando reddito dal capitale al lavoro, stimolando la domanda con la spesa pubblica, ma da una ricerca ossessiva del capitalismo di compiere la rotazione del capitale, di compiere il numero più alto possibile di rotazioni, generando quindi una sovrapproduzione che blocca le merci e che, per non essere bloccate, devono essere vendute ad un prezzo inferiore a quello necessario alla valorizzazione del capitale (quando parliamo di vendita delle merci non si intende solo la vendita al consumatore comune, ma anche e sopratutto alla compravendita tra capitali). Il capitalismo ha quindi necessità, per evitare quest’ultima ipotesi, di incidere sulla produzione, non diminuendo la produzione stessa ma aumentando gli investimenti sul capitale costante (macchine e tecnologia) e diminuendo quelli sul capitale variabile (forza lavoro e natura), generando quindi la caduta del saggio di profitto.
La sovrapproduzione evidenzia i suoi effetti più devastanti della sua realizzazione, con effetti mondiali, proprio negli elementi principali della produzione: il lavoro e la natura. Queste devastazioni si sono concretizzate non solo nella produzione, ma anche nella circolazione e nella commercializzazione delle merci.
Sul lavoro ha generato maggiore sfruttamento, diminuzione dei diritti, flessibilità, precarizzazione istituzionalizzata, licenziamenti, emigrazione.
Sulla natura ha generato inquinamento, deforestazione, dissesto territoriale, cambiamento climatico, depauperazione, sovrapproduzione di rifiuti.
Questo sia a livello globale che locale.
Ad esempio la delocalizzazione della produzione non ha significato soltanto la ricerca di forza lavoro a minor costo e con minori diritti, ma anche la possibilità di produrre senza vincoli ambientali. Il controllo sulle fonti energetiche ha prodotto guerre, colonizzazione e imperialismo, ma anche depauperazione della natura, dissesti territoriali, grandi eventi catastrofici sulla natura e sull’uomo (dalla diga del Vajont al Golfo del Messico), ricerca di nuove fonti come quella nucleare non preoccupandosi dei suoi pericolosi processi di produzione e dello smaltimento delle scorie. La deforestazione, necessaria all’approvvigionamento di legname e alla realizzazione di territori coltivabili da parte delle multinazionali agroalimentari, ha annientato culturalmente e fisicamente intere popolazioni dei popoli originari, come ad esempio quelli amazzonici, ed è una delle cause del cambiamento climatico e della diminuzione della disponibilità di acqua dolce sulla terra. La massiccia industrializzazione ha generato una sovrapproduzione di inquinanti, causa del “buco nell’ozono” e del surriscaldamento globale della Terra. L’emigrazione non è soltanto un dramma umano di sfruttamento e nuova schiavitù, ma la necessità da parte del capitale di reperire e assoggettare forza lavoro (e quindi natura) a basso costo e risultato, anche, della desertificazione, del cambiamento climatico, della depredazione dei territori, della guerra come controllo delle risorse energetiche e naturali in generale.
Ma anche, ad esempio, il dissesto idrogeologico italiano non va visto come la semplice incuria degli amministratori locali, ma come inevitabile conseguenza della produzione capitalista, con l’induzione all’abbandono dei territori rurali, deforestazione, cementificazione, sfruttamento senza vincoli o limiti delle risorse idriche. La TAV, la Variante di Valico, il ponte sullo Stretto di Messina, e altre infrastrutture di mobilità, sono una necessità della circolazione veloce delle materie prime e delle merci per accelerare la rotazione del capitale, generando grandi impieghi energetici, dissento territoriale e geologico, inquinamento atmosferico, acustico, paesaggistico. La privatizzazione dell’acqua non è soltanto una privazione all’uomo di un suo diritto e il tentativo del capitale di fare profitti diretti sulla sua vendita, ma la necessità di controllo da parte del capitale di una fonte energetica importante e di un elemento primario e indispensabile alla produzione di qualunque merce, o per il reperimento di altre materie prime. Lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione, con i conseguenti problemi di inquinamento elettromagnetico, non è solo la necessità di vendere telefonini, computer e GPS, ma anche quella di produrre sofisticati strumenti bellici o di far circolare virtualmente i capitali e sviluppare la finanza in modo sempre più veloce e sofisticato. La sovrapproduzione di rifiuti solidi urbani, con la conseguente necessità di smaltirli attraverso la creazione di sempre più discariche o dei cosiddetti impropriamente termovalorizzatori, è il prodotto della commercializzazione della produzione capitalista che deve indurre necessariamente al consumismo.
La crisi degli alloggi non è dovuta a scarsità di abitazioni, ma ad una sovrapproduzione. La speculazione fa diventare i terreni agricoli, sopratutto alla periferia delle città, edificabili, con “accordi di programma” tra il capitale e gli enti pubblici, che vengono cementificati con strade di collegamento e abitazioni, che non saranno mai vendute tutte (in Italia ci sono 8 milioni di appartamenti in più rispetto alla necessità), nonostante una sempre maggiore fetta della popolazione è senza casa, ma che servono per valorizzare il capitale che può essere messo a garanzia per nuove speculazioni edilizie e costruzione di nuove cubature, o per altre operazioni economiche e finanziarie.
Questo solo per fare alcuni esempio di carattere globale e locale.
Oggi, più che mai, i meccanismi intrinseci della produzione capitalista si sono rivelati i fattori scatenanti tanto della crisi economica che della crisi ecologica, poiché determinati da una lunga difficoltà irrisolta nel rilancio dei processi di accumulazione, quello che si ritiene “giusto” e “equo” per l’intero ciclo di valorizzazione del capitale.
La scienza moderna ha giocato un ruolo da protagonista al servizio del capitale, creando le nozioni di progresso infinito e crescita illimitata. Ma il capitalismo ha una contraddizione insanabile che sta nelle leggi dell’entropia, tra la sua teoria della accumulazione illimitata e i limiti della natura, tra la riproducibilità del capitale e la irreversibilità dei processi naturali.
Se il capitalismo può, per concessione puramente teorica, superare la sua crisi economica, non può superare la sua crisi ecologica, anzi più cercherà di risolvere la sua crisi economica più accentuerà quella ecologica, e conseguentemente rendere irrisolvibile quella economica.
La soluzione sta solo nel superamento del Modo di Produzione Capitalista e nella creazione di nuovi paradigmi di civiltà.