Saïd Bouamama
Saïd Bouamama, membro del Front Uni des Immigrations et des Quartiers Populaires (FUIQP), nonché autore del libro “Figures de la révolution africain. De Kenyatta à Sankara” (La Découverte, 2017), dei due volumi “Manuel Stratėgique de l’Afrique” (Investig’Action, 2018), analizza l’impasse del neo-colonialismo francese in Mali e nel Sahel, la tenuta dell’impianto politico-economico della Françafrique di fronte a nuovi competitor internazionali (Cina e Russia) e la recrudescenza delle argomentazioni coloniali nel dibattito pubblico francese
Il neocolonialismo francese sta affrontando una messa in discussione senza precedenti nel continente africano dalla sua installazione al momento dell’indipendenza. Dal Mali al Burkina Faso passando per il Niger, le manifestazioni popolari contro la presenza delle truppe francesi si sono moltiplicate dal 2015. Il tentativo di isolare il nuovo governo del Mali è un chiaro fallimento per Macron. Ha avuto due risultati innegabili: la mobilitazione della maggioranza del popolo maliano per sostenere il nuovo governo di fronte alla pressione internazionale, da un lato, e l’aumento in tutta la regione e oltre di quelli che il giornalista Rémi Carayol ha definito “sentimenti antifrancesi” [1], dall’altro. La copertura mediatica dominante di tutta questa storia in Francia è stata segnata dal ritorno degli argomenti coloniali degli anni ‘50: la manipolazione internazionale, l’annuncio di un futuro catastrofico in caso di “rottura” con Parigi, la demonizzazione dei politici africani non cooperativi, ecc.
Il sottofondo economico
È diventato comune affermare l’assenza di un sottofondo economico alla politica africana della Francia. Anche gli analisti che si dichiarano “anticapitalisti” si permettono di bollare come caricaturali le analisi che sottolineano la posta in gioco economica dell’interventismo militare francese sul continente. Il caso dell’uranio del Niger può servire per analizzare questa retorica pretenziosa. La rivista economica L’Usine nouvelle, per esempio, titola un articolo del novembre 2019 come segue: “No, la Francia non è in Mali per proteggere le miniere di uranio di Orano”, spiegando che “rintracciare gli interessi privati dietro l’intervento francese in Mali è pretendere di ignorare il fatto che il Sahel è il principale focolaio di terrorismo più vicino a noi”. È quindi solo per proteggersi dal terrorismo che la Francia e l’Europa intervengono militarmente nel Sahel. L’interesse del popolo africano a porre fine al terrorismo convergerebbe così con l’interesse francese a proteggersi dallo stesso flagello. Analisi di questo tipo evidenziano che l’uranio nigeriano è solo la terza più importante importazione di uranio francese dopo il Kazakistan e l’Australia e appena prima dell’Uzbekistan. Dalla chiusura dell’ultima miniera di uranio in Francia nel 2001, le importazioni di uranio sono state distribuite come segue per il periodo 2005-2020: Kazakistan (20,1%), Australia (18,7%), Niger (17,9%) e Uzbekistan (16,1%) [2].
Bisogna aggiungere che questi dati riguardano solo le importazioni della multinazionale francese Orano (ex AREVA). Dovrebbero essere completati con altre importazioni francesi di uranio arricchito. Una volta arricchito nei Paesi Bassi o in Germania, l’uranio nigeriano o kazako appare nelle statistiche come proveniente da questi paesi. Lo stato delle statistiche non permette quindi di tracciare un quadro preciso dell’origine reale dell’uranio consumato da EDF (Électricité de France è la maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia, ndt). La scelta di basare la politica energetica francese sul pilastro quasi unico del nucleare assicura certamente “l’indipendenza energetica” ma sulla base dell’interventismo politico e militare in Africa occidentale e nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Anche se si utilizzasse solo l’uranio prodotto dalla multinazionale Orano, il complesso nucleare francese sarebbe improvvisamente e considerevolmente rallentato dalla fine della fonte nigerina. Se è pertinente sottolineare la diversificazione delle origini dell’uranio consumato in Francia, è essenziale completare questa osservazione con un’altra: ognuna delle quattro grandi fonti d’importazione è sufficientemente importante da mettere in difficoltà la macchina economica francese in caso di scomparsa o di indebolimento significativo di queste fonti. Se il 72% [3] dell’elettricità prodotta in Francia è di origine nucleare nel 2018, è facile capire la portata della posta in gioco in Niger o in Kazakistan per le multinazionali francesi.
I settori del petrolio e del gas evidenziano la posta in gioco geo-economica delle stesse aree geografiche. Nel 2020, il 30% del petrolio importato in Francia viene dall’Africa (Algeria 10,3%; Nigeria 9,6%; Libia 2,7%), il 26,2% dai paesi dell’ex URSS (di cui 8,7% dalla Russia) e il 15,5% dal Medio Oriente (di cui 11,8% dall’Arabia Saudita) [4]. Con una minore dipendenza, il settore del gas è determinato dalle stesse questioni geostrategiche. Mentre il 36% del gas consumato in Francia è di origine norvegese, la Russia viene dopo (con il 17%) seguita da Algeria (8%), Paesi Bassi (8%) e Nigeria (7%). Nonostante coloro che, con il pretesto di rompere con “spiegazioni economiche semplicistiche”, negano i fondamenti economici della politica estera francese, l’Africa, il Medio Oriente e l’ex URSS sono i quadranti nevralgici per gli interessi delle multinazionali francesi.
La domanda cinese e i suoi effetti africani
Lo sviluppo economico cinese degli ultimi decenni è stato un vero e proprio terremoto nelle relazioni tra la Francia e l’Unione Europea, da un lato, e il continente africano, dall’altro. Il bisogno di Pechino di materie prime energetiche legate a questa crescita economica ha portato a numerosi contratti tra la Cina e vari paesi africani. Nel campo dell’uranio, il governo della Namibia ha aperto una gigantesca miniera a Husab alla fine del 2016, rovinando così uno dei sogni più importanti di AREVA. In Niger la concessione assegnata alla multinazionale francese Orano nel 2009 non è ancora sfruttata. “Supponendo di produrre 5.000 tonnellate di uranio ogni anno, Imouraren non è stata ancora messa in funzione, con Orano che adduce il cattivo prezzo dell’uranio sul mercato mondiale”, riassume il giornalista Francis Sahel. Il timore di vedere il governo nigerino rivolgersi alla Cina per lo sfruttamento del suo uranio non è un’illusione, visti i bisogni di Pechino in questa materia prima. Impegnato in una transizione energetica su larga scala che dovrebbe ridurre considerevolmente la quota di carbone, il paese è impegnato nella costruzione di più di 134 reattori nucleari a un ritmo di sei-otto impianti all’anno. In totale, il fabbisogno di uranio della Cina è stimato in 35.000 tonnellate all’anno. Attualmente, più del 70% di questo uranio è importato dall’Australia e dal Canada, due alleati degli Stati Uniti, che non fanno mistero del loro desiderio di soffocare economicamente la Cina rendendole più difficile l’accesso alle materie prime [5]. Se, a lungo termine, la politica energetica cinese prevede di attingere questo uranio dall’acqua di mare, dovrà trovare nuove fonti di approvvigionamento per un lungo periodo di transizione.
La situazione è simile per il gas, il petrolio, molte altre materie prime e prodotti agricoli. La misura della crescita della domanda cinese in Africa è diversa per ciascuno di questi prodotti, ma l’aumento è quasi universale. Gli effetti di questa situazione sono riassunti dagli autori del libro “La Chine en Afrique. Menace ou opportunité pour le développement ?”.
“L’arrivo di un nuovo attoredi peso nel gioco, non toccato dalla storia coloniale in Africa e poco esigente nella concessione dei suoi finanziamenti, è quindi visto come un’opportunità per sciogliere questi legami di dipendenza e per allargare lo stretto margine di manovra che i paesi africani hanno. In questa prospettiva, la presenza cinese in Africa […] può essere vista come salutare. Questi nuovi attori non solo forniscono all’Africa nuove risorse finanziarie, in un contesto di relativa scarsità, ma creano anche una ‘nuova pressione competitiva’ sui donatori stabiliti. E stanno aprendo nuovi spazi politici per i paesi africani che potrebbero alla fine permettere loro di sfuggire all’ortodossia liberale e definire la propria traiettoria di sviluppo non prescritta e incondizionata” [6].
L’ineguale rapporto faccia a faccia tra ogni paese africano e la sua ex potenza coloniale (o con entità come l’Unione Europea o gli Stati Uniti) tende a distendersi a favore di un orizzonte di possibilità più ampio. È in questo nuovo contesto globale africano, in atto dall’inizio del secolo, che si sviluppano le crisi di sicurezza contemporanee in Africa occidentale. Queste crisi hanno molteplici fattori, ma due di essi hanno effetti di vasta portata. Il primo fattore è il lungo processo di indebolimento delle capacità di intervento (economiche, politiche, di sicurezza, educative, sanitarie, ecc.) degli Stati africani dopo quasi mezzo secolo di imposizione dei piani di aggiustamento strutturale del FMI e della Banca Mondiale. La privatizzazione e la liberalizzazione forzata hanno indebolito la capacità concreta degli Stati di costruire nazioni: intere regioni sono state abbandonate, la disuguaglianza territoriale si è instaurata, l’impoverimento ha raggiunto livelli mai visti dall’indipendenza. Il secondo fattore è la violenta distruzione della Libia e i suoi duraturi effetti destabilizzanti su tutta la regione. Un decennio dopo la distruzione della Libia, le sue metastasi stanno fiorendo nella maggior parte dei paesi della regione, esacerbando le precedenti contraddizioni nazionali derivanti dalle carenze della costruzione nazionale, esse stesse sovradeterminate dalle politiche neoliberali dei piani di aggiustamento strutturale.
Il ritorno delle argomentazioni coloniali
I dibattiti politici e mediatici che accompagnano i vari episodi della crisi del neo-colonialismo francese in Africa sono caratterizzati dalla forte ricorrenza di due logiche argomentative: la “mano dall’esterno”, da un lato, e il “catastrofismo” in caso di ritiro dell’esercito francese dalla regione, dall’altro. Il primo è ampiamente proposto dai media per spiegare quello che troppo facilmente viene chiamato lo pseudo “sentimento anti–francese” [7]. Il programma “Cdans l’air” del 13 febbraio 2022 era intitolato “la crescita del sentimento antifrancese in Mali”. Sembra riecheggiare un precedente programma di France 24 di due anni fa, intitolato “In Africa cresce il sentimento anti–francese” [8]. Il concetto vago di “sentimento anti–francese” è ugualmente presente nella stampa scritta. Le Figaro ha titolato un articolo il 20 gennaio 2022: “sanzioni, manifestazioni, sentimento anti–francese” [9]. Libération del 26 novembre 2021 usa la stessa nozione indefinita con il titolo “sentimento anti–francese in Africa” [10]. Se è vero che da più di un decennio si è sviluppato un movimento di opposizione alla politica economica francese ed europea in Africa, in particolare tra i giovani [contro il franco CFA, contro gli accordi di partenariato economico dell’Unione Europea, ecc.], ridurlo a “sentimento anti–francese” significa depoliticizzarlo, consapevolmente o meno, e riportarlo a una dimensione puramente soggettiva, o addirittura renderlo irrazionale. Allo stesso modo, la contestazione della politica francese di lotta contro il terrorismo in Africa occidentale o la critica dei suoi obiettivi di guerra si riducono allo stesso “sentimento anti–francese” con le stesse conseguenze di depoliticizzazione di una contestazione sociale. E poiché a questi movimenti viene negata qualsiasi dimensione politica, c’è solo un’attribuzione causale per spiegarli: “la mano dall’esterno”, in questo caso Cina e Russia. Il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha spiegato il 21 novembre 2021: “Ci sono dei manipolatori, attraverso i social network, attraverso false notizie, attraverso la strumentalizzazione di una parte della stampa, che giocano contro la Francia, alcuni dei quali sono anche ispirati da reti europee, penso alla Russia” [11]. I “popoli bambini” africani sarebbero così manipolati da questa “mano esterna”. Tuttavia, in un articolo del giugno 2015, cioè prima del ritorno dello pseudo “sentimento anti–francese”, avevamo annunciato lo sviluppo di quella che abbiamo proposto di chiamare “una nuova generazione anti–coloniale” in Africa [12].
Il concetto di “sentimento anti-francese” e il suo legame con la griglia esplicativa in termini di “mano esterna” è tutt’altro che nuovo. Entrambi possono essere trovati nello sviluppo delle lotte di liberazione nazionale degli anni ‘50. È quindi la mano di “Mosca” o de “Il Cairo” che viene invocata per spiegare l’insurrezione algerina e quella di Mosca e Pechino per spiegare la Rivoluzione vietnamita. Poiché queste rivolte nazionali non potevano essere spiegate da cause interne – cioè dal rifiuto della colonizzazione –, potevano essere presentate solo come un’aggressione straniera camuffata da una guerra di liberazione nazionale. Così, per esempio, il ministro degli Esteri francese Christian Pineau ha dichiarato il 2 marzo 1957 che “dietro certe forme d’insurrezione si nasconde il desiderio di certe potenze di impadronirsi dell’eredità della Francia in Nord Africa” [13]. Lo storico Charles Robert Ageron riassume così la tesi della “mano esterna” al momento dello scoppio dell’insurrezione algerina: “La tesi del complotto straniero nello scoppio dell’insurrezione algerina fu la reazione immediata delle autorità di Algeri. Il governatore generale Léonard aveva assicurato loro nel novembre 1954 che ‘i rivoltosi avevano obbedito a un ordine straniero’. Nel 1955 i vari servizi segreti erano giunti alle seguenti conclusioni: la ribellione aveva il suo centro al Cairo ed era guidata e armata dai servizi segreti egiziani. In breve, la Rivoluzione egiziana aveva scatenato una guerra contro la Francia attraverso i nordafricani” [14].
Il secondo argomento ricorrente nei media contemporanei, in particolare in relazione al Mali, è quello del catastrofismo. In particolare, è spesso usato per annunciare il caos nel caso della partenza delle truppe francesi dal Sahel e/o dal Mali. Nelle crisi attuali in Africa occidentale, questo catastrofismo si esprime in molte forme ma sempre con lo stesso sfondo: “La paura dello scenario afgano” (France Info), “Tensioni tra Francia e Mali: somiglianze che fanno temere uno scenario in stile afgano” (L’express), “In Mali, i timori di uno scenario afgano” (l’Opinion); “Timbuktu, la paura dello scenario afgano” (France Inter), ecc. A questa prima versione di catastrofismo se ne aggiunge un’altra sotto forma di discorso sui “mercenari del gruppo Wagner” che annuncerebbero una conquista russa della regione e del Mali in particolare. Implicito in questa versione non è altro che il principio della scelta del “meno peggio”, che presuppone che l’attuale situazione catastrofica sia preferibile a qualsiasi altra alternativa. Questa logica argomentativa non è né nuova né originale. È stato anche usato frequentemente al tempo delle lotte di liberazione nazionale. A differenza della precedente, questa logica può essere accompagnata da uno sguardo critico sulla politica coloniale e chiederne la riforma per renderla meno “disumana”. È stato utilizzato da un campo politico più ampio. Così il leader comunista Paul Caballero scriveva nel 1945 sul giornale L’Humanité: “Coloro che chiedono l’indipendenza dell’Algeria sono agenti coscienti o inconsci di un altro imperialismo. Non vogliamo cambiare il nostro cavallo guercio con uno cieco” [15]. Se Paul Cabalerro pensa qui all’“imperialismo americano”, De Gaulle riprende la stessa logica catastrofista nel 1959, pensando all’“imperialismo russo”. Immaginando l’ipotesi di un’indipendenza totale dell’Algeria, ha predetto “sangue e lacrime” per il popolo algerino: “Sono, da parte mia, convinto che un tale risultato sarebbe improbabile e disastroso. Essendo l’Algeria attualmente quello che è, e il mondo quello che sappiamo che è, la secessione porterebbe a una miseria spaventosa, a un terribile caos politico, a un massacro diffuso e, presto, alla bellicosa dittatura dei comunisti” [16].
Dovremmo essere sorpresi da questo ritorno delle argomentazioni coloniali? Non crediamo, vista la portata della posta in gioco strategica in Algeria nel 1959 e nel Sahel nel 2022. L’energia in generale e l’uranio in particolare erano già in gioco nel 1959 e lo saranno ancora nel 2022. Oltre alla questione del gas e del petrolio nel Sahara algerino, una delle cause della durata della guerra d’Algeria si trova nei test nucleari effettuati nello stesso Sahara. Il 13 febbraio 1960, il primo test nucleare francese ebbe luogo con il nome esotico di “Gerboise bleue”. È stato già condotto con l’uranio africano del Madagascar. In un momento in cui le truppe francesi sono costrette a lasciare il Mali per ridispiegarsi nei paesi vicini, è essenziale non oscurare questi interessi neocoloniali nella regione. Senza questa vigilanza, ci condanniamo a non capire la dinamica anticoloniale che si sta svolgendo in Africa occidentale e più ampiamente. Senza prendere in considerazione i fondamenti economici delle decisioni francesi, si è condannati a credere al discorso legittimante della “lotta contro il terrorismo” e si diventa così porosi nei confronti delle più trite argomentazioni coloniali.
Note
[1] ↑ Rémi Carayol, “Au Sahel, la flambée des sentiments anti-français”, Orient XXI, 14 novembre 2019.
[2] ↑ Pierre Breteau, “L’indépendance énergétique de la France grâce au Nucléaire : un tour de passe statistique”, Le Monde, 24 gennaio 2002.
[3] ↑ “Qual è il mix energetico in Francia?”, Documento Engie del 3 dicembre 2021.
[4] ↑ “Provenance du pétrole brut importé en France”, INSEE, Statistiques et études del 24 dicembre 2021.
[5] ↑ Yohan Demeure, “La Chine désirer puiser son uranium dans l’eau de mer”, 10 giugno 2021, disponibile su https://sciencepost.fr.
[6] ↑ Alternative Sud, “La Chine en Afrique. Menace ou opportunité de développement ? Points de vue du Sud”, Syllepse, Parigi, 2011, p. 19.
[7] ↑ Cdans l’air del 13 febbraio 2022, “la montée du sentiment anti-français au Mali”, disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=0QAF52bFjNc.
[8] ↑ France 24, 14 gennaio 2020, “En Afrique le sentiment anti-français se développe”, disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=v57ISQpbggI.
[9] ↑ Hugues Maillot, “Sanctions, manifestations, sentiment anti-français : la délicate situation des expatriés au Mali”, Le Figaro, 20 gennaio 2022.
[10] ↑ Maria Malagardis, “sentimento anti-francese” in Africa: “En huit ans, la présence militaire au Sahel n’a réglé rien, bien au contraire”, Libération del 26 novembre 2021.
[11] ↑ Citato in Francis Lalanne, “Entre Paris et Moscou, la guerre de l’information fait rage”, L’express, 25 novembre 2021.
[12] ↑ Saïd Bouamama, “Les nouvelles générations africaines. Espoirs et vigilances”.
[13] ↑ Discorso di Christian Pineau del 2 marzo 1957, citato in Irwin M. Wall, “Les Etats-Unis et la guerre d’Algérie”, Soleb, Parigi, 2006, p. 46.
[14] ↑ Charles Robert Ageron, “L’opération Suez et la guerre d’Algérie”, in Charles Robert Ageron (ed.), “De l’Algérie française à l’Algérie algérienne, volume 1”, Editions Bouchène, Alger, 2005, p. 549.
[15] ↑ Discorso di Paul Cabalerro al X Congresso del PCF, L’Humanité, 30 giugno 1945.
[16] ↑ Charles De Gaulle, Discorso sull’autodeterminazione dell’Algeria, 16 settembre 1959, riprodotto in Jean-Marie Cotteret e René Moreau, “Recherches sur le vocabulaire du général De Gaulles”, Armand Colin, Parigi, 1969, p. 68.