Giacomo Marchetti
Seguiamo attentamente l’evoluzione dell’intervento militare dei Paesi dell’Unione Europea in Africa, in particolare della Francia, ex potenza coloniale che sta allargando i confini della sua iniziativa – che difende innanzitutto gli interessi delle multinazionali francesi – oltre i propri tradizionali perimetri di penetrazione coloniale.
Allo stesso tempo, abbiamo cercato di monitorare le responsabilità europee nella feroce repressione nei confronti dei movimenti di opposizione a regimi funzionali ai progetti dell’Unione Europea, grazie a corpi militari addestrati ed in parte armati dal Vecchio Continente: Sudan, Mali e Ciad, per non fare che alcuni esempi recenti.
Potremmo allargare il discorso al ruolo di gendarme affidato alla Turchia o al Marocco per ciò che concerne il controllo dei flussi migratori, per non parlare del nefasto ruolo della Guardia Costiera Libica.
Prendiamo poi in considerazione quanto l’Unione Europea, la Francia in primis, chiuda un occhio nei confronti di veri e propri dittatori funzionali al mantenimento della propria egemonia che minano la possibilità di intraprendere processi realmente democratici nei loro Paesi. Il che incrementa legittimamente, per reazione, l’ostilità soprattutto delle nuove generazioni nei confronti non solo di politici corrotti filo-francesi ma anche degli interessi economici di Parigi in loco, dal momento in cui ormai l’emigrazione non ha quasi più uno sbocco praticabile lungo i flussi tradizionali.
La cronaca ci offre ogni giorno spunti sufficienti per comprendere come la tenuta dei vecchi attori neo-coloniali in Africa sia in crisi – anche a causa di una insorgenza jihadista che ormai riguarda tutto il continente. Mentre l’influenza economica cinese, o quella militare russa, stanno lentamente destabilizzando gli storici “equilibri” africani, quasi sempre disegnati da un modello di sviluppo neo-coloniale che ha avvantaggiato una ristrettissima porzione della popolazione, drenato la rendita di importanti risorse verso l’Europa (materie prime in particolare), imposto la servitù monetaria, impoverendo i più e cristallizzando un quadro politico difeso militarmente in prima persona dalla vecchia potenza coloniale o da una più larga alleanza.
In questo quadro l’Italia si è andata ad infilare in un sempre più pericoloso ginepraio nel Sahel (ma non solo), che pensiamo non tarderà ad avere le sue ricadute negative a tutto campo, come le ha avute prima in Afghanistan e poi in Iraq. Teatri dove abbiamo subalternamente appoggiato missioni militari di natura neo-coloniale, di cui il tempo si è incaricato di mostrare empiricamente la natura fallimentare (dal punto di vista della politica estera del nostro Paese), oltreché micidiali soprattutto per le popolazioni che le hanno subite.
Ma non sembra che l’attuale classe politica nostrana abbia fatto tesoro di questa lezione, restando serva di due padroni: la Nato e l’Unione Europea.
Nell’articolo che abbiamo qui tradotto appare chiaro come l’Unione Europea, con il European Peace Facility, compia un “salto di qualità” nell’articolazione delle politiche neo-coloniali in Africa, trovando tra l’altro un mercato di sbocco alla sempre più fiorente propria industria bellica, per tagliare quindi la strada a possibili competitor nel proprio “giardino di casa”.
Come riporta Peel: «I soldi arriveranno da un nuovo fondo da 5 miliardi di euro in sette anni stranamente noto come European Peace Facility. L’EPF è la più significativa espansione ad oggi nell’accrescimento dei tentativi dell’UE di proiettare “hard power” in modo da influenzare conflitti internazionali particolarmente in regioni vicine ai propri confini come l’Est Europa e l’Africa».
La proiezione dell’hard power dell’Unione potrebbe portare alla creazione di un corpo di proiezione rapida (preconizzato da tempo) a trazione franco-tedesca da impiegare nei teatri di guerra fuori dai confini europei.
«La nuova postura militare emergente dell’UE», afferma il giornalista del Financial Times, «potrebbe includere il riavvio di una forza a reazione rapida che intervenga nelle crisi internazionali. Nel 2007, il blocco creò due gruppi di battaglia pronti ad intervenire in varie aree calde del mondo, ma non sono mai state messe in campo. Ora 14 paesi, tra cui Francia e Germania, stanno studiando la creazione di un’unità di 5.000 soldati che possa essere sorretta da navi e aerei.»
Di fatto, un salto di qualità nell’affermazione di quell’auspicata autonomia strategica, attraverso una stretta cooperazione europea a fini operativi, che riguarderebbe due storici strumenti di affermazione militare come l’aviazione e la marina per “portare gli scarponi” di un esercito europeo lì dove più serve.
Nel far questo, si è cercato di aggirare quei meccanismi decisionali che avrebbero potuto rilevarsi dei “colli di bottiglia” per l’articolazione pratica del progetto, di fatto creando una sorta di Europa a due velocità anche per la governace militare: si marginalizzano i governi dei Paesi non disposti ad entrare nel progetto della EFP, in modo da non mutilare le aspirazioni imperialiste dei Paesi core.
Spiega infatti l’autore che: «Le nazioni che non si sentono particolarmente favorevoli all’EPF possono semplicemente uscirne piuttosto che porre un veto. Non contribuiranno finanziariamente al progetto e quindi non potranno dire di aver partecipato (…) Se un paese membro particolarmente forte decide di dover intervenire, altri paesi sarebbero riluttanti nel confrontarlo. Questi piani sarebbero bloccati solo se si astenesse un terzo dei paesi che rappresenta un terzo dei cittadini membri».
Considerando che chi tiene in mano le leve del potere politico-economico ed i cordoni della borsa ha la capacità di influenzare ampiamente l’opinione degli altri governi in UE, questo “potere di veto” concede un ampio margine alle future imprese belliche dell’Unione Europea per mantenere o imporre i propri “figli di puttana” (parafrasando un diplomatico nord-americano).
Un deciso passo in avanti nel processo di integrazione europea in uno degli aspetti in cui mostrava ancora i suoi limiti, ed un completamento del complesso militar-industriale di cui si osservano puntuali cadute nella bozza di Recovery Fund inviata a Bruxelles dall’Esecutivo Draghi.
E chi vuole la guerra si prepara alla guerra, altro che chiacchiere.
Buona lettura.
Micheal Peel (Financial Times)
La morte in aprile del dittatore del Ciad, Idriss Déby, sul campo di battaglia, ha prodotto numerosi omaggi da parte di Bruxelles. Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha twittato ricordando un “alleato nella lotta contro il terrorismo”.
Josep Borrell, capo della politica estera europea, ha acclamato una “figura politica storica”, i cui sforzi per mantenere la sicurezza regionale sono stati “duraturi e solidi”. Queste sono affermazioni che colpiscono. L’Unione Europea si impegna retoricamente per la democrazia e i diritti umani, ma….
Déby è stato un signore della guerra trasformatosi in cleptocrate che ha governato brutalmente il suo paese africano senza sbocco sul mare per più di trent’anni. Le lodi sono state il presagio di un importante cambiamento nella politica estera e securitaria dell’UE.
Per la prima volta, al blocco europeo è concesso di armare regimi quali quello di Déby nel nome della “lotta al terrorismo”, proteggendo i cittadini e stabilizzando stati fragili. I soldi arriveranno da un nuovo fondo da 5 miliardi di euro in sette anni, stranamente noto come European Peace Facility (chiamare “pace” uno strumento di guerra è un classico, nella letteratura distopica dopo Orwell, ndr).
L’EPF è ad oggi la più significativa espansione nell’accrescimento dei tentativi dell’UE di proiettare “hard power” – in modo da influenzare conflitti internazionali, particolarmente in regioni vicini ai propri confini come l’Est Europa e l’Africa.
Borrell ha definito la logica dell’uso delle armi come risolutore di conflitti con tipica schiettezza, affermando l’anno scorso che “per fermare le armi, dispiace dirlo, ma abbiamo bisogno di armi”. “Non fermeremo i terroristi semplicemente facendo la morale”, dice. “Abbiamo bisogno di armi. Abbiamo bisogno di capacità militari e questo è ciò che abbiamo bisogno di provvedere per aiutare i nostri amici africani. Perché la loro sicurezza è la nostra sicurezza”.
La mossa è ambigua, nonostante l’insistenza dell’UE che ha come obiettivo il “rafforzamento di forze armate democratiche e responsabili”. I critici descrivono l’invio diretto di armi tramite l’EPF come un cambiamento pericoloso e dicono che minaccia di consolidare una dittatura e il conflitto perenne in uno dei paesi più poveri al mondo.
Alcuni scettici affermano che l’UE ha imparato la “lezione sbagliata” dopo decenni di campagne militari occidentali distruttive, come quelle in Iraq o Afghanistan. Pensano sia perverso che l’UE suggerisca che la risposta sia maggior intervento militare.
“C’è una crescente contraddizione nell’approccio europeo a conflitti e crisi”, spiega Lucia Montanaro, capo dell’ufficio dell’Unione Europea di Saferworld, un’agenzia non-governativa che si occupa di conflitti. “I suoi forti impegni nel promuovere i diritti umani, l’uguaglianza di genere e il controllo sulle armi stanno venendo profondamente oscurati dagli sforzi nel migliorare le capacità combattive di partner autoritari. Questo potrebbe mettere sotto pericolo la pace e la stabilità in stati fragili e a peggiorare la reputazione stessa dell’Unione Europea.”
L’Unione Europea ha avuto per anni difficoltà nel diventare la potenza che vorrebbe essere in tema di politica estera. Il suo ruolo di successo nel coordinare gli accordi nucleari con l’Iran nel 2015 ha provato un elevato punto diplomatico che ha finora avuto difficoltà a raggiungere nuovamente.
Come ministro degli esteri spagnolo, Borrell si è lamentato del fatto che il rituale incontro con i propri omologhi era di solito “una valle di lacrime”, incapace di influenzare gli eventi globali. Il blocco europeo, vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2012, storicamente si è approcciato come conciliatore, ma molti dei suoi membri hanno stabilito che deve avere un profilo più securitario.
Il blocco si scontra più frequentemente con la Russia e una Cina assertiva e si sta focalizzando maggiormente sul “terrorismo” dopo numerosi attentati avvenuti sul proprio suolo.
Ha inoltre preso maggiori misure securitarie dopo l’ondata di migrazioni nel Mar Mediterraneo dall’Africa del 2015-2016. L’arrivo di 6mila persone nell’enclave nord africana spagnola di Ceuta la scorsa settimana ricorda quanto è diventata nevralgica la questione migratoria per molti leader europei.
Altre pressioni esterne hanno convinto gli europei ad espandere i propri obiettivi militari. Gli Stati Uniti sperano da molto tempo che [gli europei] spendano di più per le proprie forze armate e prendano più responsabilità a stabilizzare paesi vicini ai propri confini, come l’Ucraina e la Georgia.
Allo stesso tempo, l’addio del Regno Unito ha rimosso un grande ostacolo nella possibilità di cooperazione militare tra i vari paesi membri. La nuova postura militare emergente dell’UE potrebbe includere il riavvio di una forza a reazione rapida che intervenga nelle crisi internazionali.
Nel 2007, il blocco creò due gruppi di battaglia pronti ad intervenire in varie aree calde del mondo, ma non sono mai state messe in campo. Ora 14 paesi, tra cui Francia e Germania, stanno studiando la creazione di un’unità di 5.000 soldati che possa essere supportata da navi e aerei.
L’EPF è al cuore di piani di sicurezza dell’UE. I suoi sostenitore lo descrivono come un importante strumento in un mondo “a somma zero” dove se l’Unione Europea non interviene, i suoi rivali lo faranno.
Florence Parly, il ministro della difesa della Francia, descrive la Repubblica Centrafricana, dove la Russia sta attualmente aiutando il governo locale a combattere un movimento di ribelli, come un esempio preoccupante. I paesi africani più preoccupanti, dal punto di vista della sicurezza dell’UE, sono stati tutti occupati in passato dalla Francia.
“Se vuoi valorizzare quello che si sta facendo, bisogna ammettere che viviamo in un mondo difficile”, ha detto Parly a febbraio, parlando della necessità dell’EPF. “Altrimenti se si lascia la stanza vuota, ci saranno altri che la verranno ad occupare immediatamente”.
João Gomes Cravinho, ministro della difesa portoghese, asserisce che l’EPF sarà un’”aggiunta indispensabile” alla “cassetta degli attrezzi” della sicurezza europea. Permetterebbe di cambiare l’”assurda situazione” nella quale si addestrano le forze armate africane, ma non le si equipaggiano.
Cravinho riconosce le “esperienze negative” delle precedenti campagne militari occidentali, ma dice che le conseguenze del non far nulla sono potenzialmente “devastanti”, particolarmente in zone dove gruppi di militanti islamisti sono attivi.
“Lo sviluppo di una regione di ingovernabilità in larga parte d’Africa avrà sicuramente ripercussioni negative sulla sicurezza in Europa”, aggiunge Cravinho, riferendosi ad un grande numero di paesi che vanno dalla Mauritania sulla costa ovest al Sudan su quella est. “Ciò è qualcosa che non possiamo permetterci”.
Un papabile obiettivo specifico dell’EPF è la regione del Sahel, schiacciata tra la costa tropicale dell’Africa occidentale e il nord desertico. Una missione d’addestramento militare dell’UE supporta una campagna innescata dalla Francia ed altre forze locali per disarcionare gruppi islamisti. Potrebbe coinvolgere più di 1.000 unità provenienti da 25 paesi.
L’UE ha distribuito 1,3 miliardi di euro per missioni di assistenza alla sicurezza e progetti nel Sahel nei sette anni scorsi, secondo ricerche provenienti da Saferworld. Le attività spaziavano dall’addestrare forze di controterrorismo maliane al rafforzamento delle truppe di confine del Ciad.
L’equipaggiamento fornito include veicoli corazzati, droni, barche, aerei ed equipaggiamento da controllo delle persone, ma non armi, escludendo quelle fornite dagli stati membri individualmente e secondo le proprie leggi nazionali. L’UE dice di aver speso circa l’80% dei 4,7 miliardi di euro di spese per 5 paesi del Sahel dal 2014 ad oggi per sviluppo e stabilizzazione.
L’EPF è il tentativo di sintetizzare e ed espandere l’investimento istituzionale europeo. I diplomatici suggeriscono che i finanziamenti futuri potranno essere utilizzati per infrastrutture quali piccoli magazzini per armi e sistemi di identificazione biometrici per prevenire furti, o anche per acquistare armi loro stessi.
Una preoccupazione sempre più centrale è la dinamica di forte cambiamento di zone di conflitto in cui tutte le parti in campo finiscono per commettere atrocità. Le armi europee potrebbero essere usate dalle forze a cui sono date per abusi di diritti, o potrebbero cadere nelle mani di forze ostili che rovesceranno il governo.
“Questo non aiuterebbe la credibilità dell’UE”, ammette un diplomatico di Bruxelles che supporta in genere l’EPF.
Il Mali cristallizza molte delle sue paure. L’UE ha sospeso la propria missione lì ad agosto, quando un colpo di stato ha rovesciato il governo. Ma ha deciso di tornare all’azione ad ottobre, quando è stato formato un nuovo ampio governo diretto da un colonnello in pensione.
Le forze armate del Mali ed altri paesi del Sahel rischiano di essere travolte dai militanti [jihadisti]. Le forze governative locali sono state più volte citate in giudizio per violazioni dei diritti umani ed esecuzioni sommarie.
Dal colpo di stato in Mali, sono emerse molteplici accuse di abusi perpetrate da parte di forze anti-terrorismo governative. I soldati hanno ucciso 34 residenti in villaggi, ne hanno rapito 16 e hanno maltrattato diversi prigionieri, tra ottobre e marzo, secondo testimonianze raccolte da Human Rights Watch.
L’UE si aspetta un’inchiesta sulle accuse e il Mali dice di averne aperta una. Le possibilità dell’EPF di rinforzare governi abusivi ha attratto diverse critiche da gruppi della società civile.
“Per noi in Mali, stabilizzazione significa stabilizzazione dello status quo militare”, dice Assitan Diallo, presidente dell’Associazione di Donne Africane per la Ricerca e lo Sviluppo. La Somalia, dove le truppe spesso si addestrano con fucili di legno e infradito, sottolinea altre potenziali difficoltà.
Le forze lì addestrate dall’UE dovrebbero essere all’altezza di combattere contro gruppi insorgenti come Al-Shabaab, ma rischiano di diventare parte di una ricerca del potere locale che rischia di amplificarsi. Le truppe governative somale e i sostenitori dell’opposizione si sono sparati addosso durante le proteste a Mogadiscio dello scorso febbraio.
La missione d’addestramento dell’UE lì ha fallito nel progettare meccanismi a lungo termine o risolvere le dinamiche sociali basate sui clan del paese, dice un esperto della Somalia. Omar Mahmood, un analista senior della Somalia all’International Crisis Group, rivela che l’UE ha trovato difficile addestrare battaglioni trans-clanici.
Paul Williams, un professore alla George Washington University, sostiene che la missione europea ha avuto un notevole apporto nel migliorare le prestazioni della fanteria leggera, ma ha fallito nel monitare e supportare i propri ex “studenti”.
L’UE dice di star lavorando per migliorare il monitoraggio. Le preoccupazioni riguardo le responsabilità sono familiari grazie all’esperienza europea precedente in zone di conflitto, alcune delle quali potrebbero essere degli obiettivi per l’EPF.
Le guardie costiere libiche addestrate dall’UE sono state accusate di violazioni dei diritti umani nelle loro operazioni di blocco dell’immigrazione tra il Mediterraneo e i paesi europei. Nel 2018, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha imposto sanzioni causate da probabile traffico di esseri umani su Abd al-Rahman al-Milad, capo di un’unità della guardia costiera libica. L’UE dice di non aver addestrato Milad, ma non ha ancora provveduto informazioni se abbia o meno addestrato uomini nella sua unità.
Nel Myanmar, l’UE ha bloccato i propri programmi di addestramento di polizia a febbraio, dopo il colpo di stato militare contro il governo di Aung San Suu Kyi. Riconosce che alcuni membri della polizia hanno preso parte alla brutale repressione dei manifestanti contro il golpe. L’UE ha riferito che non è dato sapere se sono stati coinvolti i 300 capi unità che aveva addestrato. “L’UE non ha mai inviato equipaggiamento a militari o polizia del Myanmar”.
Ci sono inoltre dubbi sull’EPF a livello governativo e legislativo nell’UE. Controlli dettagliati non sono mai stati pubblicati perché contengono “informazioni sensibili di natura militare e difensiva”, dice l’UE. Tuttavia, ogni supporto a forze armate alleate includerà compiti di vigilanza da parte del governo beneficiario per rendere sicuri che non sarà usato male, aggiunge l’Unione.
Una preoccupazione particolare riguarda il probabile uso da parte degli stati membri di una procedura speciale del poter mettere da parte i requisiti europei di unanimità negli affari militari esteri. Questo riguarda in particolar modo paesi quali l’Austria, la Svezia e l’Irlanda, che hanno storicamente preoccupazioni per i diritti umani o tradizionalmente sono paesi neutrali. Il processo sfrutterebbe uno strumento interno ai trattati Ue raramente usato chiamato “astensione costruttiva”.
Le nazioni che non si sentono particolarmente favorevoli all’EPF possono semplicemente uscirne piuttosto che porre un veto. Non contribuiranno finanziariamente al progetto e quindi non potranno dire di aver partecipato.
Un altro diplomatico europeo afferma che l’astensione sembra essere un modo per voltare le spalle mentre le decisioni vengono prese. “Potremmo pensare che è una cattiva idea, ma non è così malvagia. Vogliamo semplicemente prevenire che l’UE faccia questo”, dice l’ufficiale.
I critici argomentano che questo girare intorno ai problemi fiaccherà le misure di restrizione internazionali riguardo all’approvvigionamento di armi. Se un paese membro particolarmente forte decide di dover intervenire, altri paesi sarebbero riluttanti nel contrastarlo.
Questi piani sarebbero bloccati solo se un terzo dei paesi che rappresenta un terzo dei cittadini membri si astenesse. Lo scenario dell’astensione esemplifica una più ampia mancanza di responsabilità nella pianificazine dell’EPF, afferma Hannah Neumann, un’eurodeputata verde tedesca.
Membro del sottocomitato alla difesa e alla sicurezza del Parlamento Europeo, Neumann dice di non essersi opposta all’EPF, all’inizio. Ma ha paura che una mancanza di analisi del conflitto e un’osservazione democratica da parte dell’UE porterà ad una mancanza di controllo su come opererà.
“Spostandolo su un livello europeo significa un’ampia diffusione di responsabilità: vuol dire che ognuno sarà a capo di qualcosa e nessuno sarà a capo di qualcosa”, afferma Neumann. “È un ibrido senza trasparenza, supervisione parlamentare e staff adeguato“.
L’UE afferma che le preoccupazioni sull’EPF sono eccessivamente amplificate e che la sua governance è responsabile. Un ufficiale senior sostenie che l’Unione Europea non avrà mai il “grilletto facile”.
“Ci sono molti cittadini europei che sono preoccupati riguardo il danno politico, securitario e di reputazione che un singolo passo falso potrebbe recare”, afferma. “Il rischio sta proprio nel mantenerlo con troppa precauzione proprio perché conosciamo il rischio a cui andiamo incontro schierandoci sul campo.”
In Ciad, una dittatura militare capeggiata da Mahamat Idriss Déby Itno ha preso il potere immediatamente dopo la morte di suo padre. La presa di potere ha fatto esplodere proteste e repressione che ha portato a 6 morti e 700 arrestati. Giorni dopo aver partecipato al funerale del padre di Déby assieme al presidente francese Macron, il 23 aprile, Borrell è stato costretto a pubblicare un comunicato in cui si condannava la violenta repressione sotto la dittatura del figlio dell’ex presidente.
È stato un promemoria per la sottile linea che l’UE sta varcando in cerca della propria influenza.