Walter Ceccotti (in Contropiano anno 23 n° 2 – novembre 2014)
Parallelamente alla guerra in Ucraina, anche in Asia Orientale spirano venti di guerra i quali, se non opportunamente controllati, rischiano di gettare questa regione in una situazione di guerra guerreggiata, la quale per ora appare ancora sullo sfondo, ma che potrebbe tradursi in realtà.
Le aree di tensione e i possibili fronti sono i seguenti:
- disputa tra Cina e Giappone per il controllo delle isole Diaoyu/Senkaku;
- disputa tra Cina, Filippine e Vietnam per il controllo delle isole Nansha/ParacelSpratly;
- dispute territoriali tra Cina e India sul confine himalayano;
- tensione tra Corea del Nord e Corea del Sud, Giappone e USA sulla questione del nucleare e sul confine marittimo nel Mar Giallo tra Corea del Nord e del Sud.
I conflitti invece sostanzialmente disinnescati nell’area sono:
- le questioni di confine tra Cina e Russia, risolte dal loro riavvicinamento strategico;
- la questione di Taiwan, che si è notevolmente raffreddata come potenziale punto di attrito politico-militare, anche grazie al recente patto di interscambio economico e di personale diplomatico ad alto livello con Pechino, nonché all’avanzato stato di integrazione economica tra le due sponde dello stretto di Taiwan.
Gli USA giocano la “carta giapponese”: il revival militarista in Giappone
Dal 2012 in Giappone la destra è tornata al potere con il Partito Liberaldemocratico, che vede attualmente Shinzo Abe come primo ministro. Questo dopo un breve intermezzo durato dal 2009 al 2012, in cui le elezioni erano state vinte dal Partito Democratico, a lungo secondo partito in Giappone e primo partito d’opposizione. Si è trattato in quegli anni dell’unica rottura di rilievo dello strapotere del Partito Liberaldemocratico, conservatore e di destra, che ha regnato incontrastato dal 1955 al 2009 (“la democrazia giapponese”).
Questo ha portato al potere la frangia più apertamente militarista e fascista dello stesso PLD, e determinato alcune importanti modifiche alla costituzione pacifista del Paese imposta dagli USA alla fine della Seconda Guerra mondiale.
In questi anni i primi ministri Giapponesi hanno continuato le contestatissime visite al mausoleo Yasakuni dei caduti Giapponesi durante la guerra, tra i quali criminali di classe A giudicati colpevoli di crimini di guerra, suscitando così le ire non solo di Cina, Corea del Nord e del Sud, ma anche le critiche di USA, Unione Europea e Federazione russa. Ciò tuttavia è solo l’aspetto simbolico: il Giappone di Abe è riuscito a entrare nel mercato della vendita internazionale di armamenti (operazione in precedenza impedita al Giappone), ha fatto approvare dal parlamento una contestata legge sul segreto di Stato e ha dato vita a una versione giapponese del National Security Council americano.
Abe ha inoltre modificato la costituzione per fare in modo che il Giappone, che non può per legge avere un esercito e quindi chiama le forze armate costituite per aggirare questo divieto Forze di Autodifesa, possa difendere i propri alleati e quindi inserirsi nel sistema americano di difesa regionale in maniera attiva e non solo per autodifesa propria. La differenza, che può sembrare sottile (forze di autodifesa da utilizzare solo se il proprio territorio viene attaccato), in realtà è di vasta portata nel campo delle relazioni internazionali del Giappone.
Ma come è stato possibile tutto ciò, nonostante la ferma opposizione di molti Paesi asiatici e il solo appoggio esterno degli USA? Se l’Italia o la Germania facessero un decimo di quanto sta facendo il Giappone, scatterebbe la reinvasione alleata, e invece nel caso giapponese la briglia è sciolta.
Come mai? Dopo sessant’anni durante i quali nel Giappone sconfitto le forze militariste e di destra, piegate ma non definitivamente sconfitte, che spingevano da tempo per una revisione della costituzione pacifista che impone al Paese forti limitazioni in campo bellico, erano state tenute sotto controllo per via del fatto che gli USA stavano giocando la “carta cinese” in funzione antisovietica (farlo avrebbe complicato non poco le cose), oggi i giochi si sono ribaltati: la strategia del “pivot asiatico” americano necessita di un forte perno regionale che amplifichi l’alleanza in funzione anti-Pechino per cercare di contenere l’ascesa della Cina. Ecco allora che gli USA sciolgono i cani del militarismo giapponese, benché ciò stia causando non solo forti tensioni con la Cina, ma anche con la Corea del Sud (e quella del Nord ovviamente). Gli stessi Paesi del sud-est asiatico ricordano con orrore gli anni dell’occupazione giapponese e il Paese rischia un forte isolamento in Asia ad ogni passo che lo spinge sempre più nell’abbraccio degli USA.
Lo stesso Giappone sta sviluppando una politica estera in funzione anticinese ufficialmente per via dello scontro sulle isole contese, ma in realtà per completare il quadro della strategia regionale USA e inserendo in questo gioco altri importanti attori, uno dei quali è paragonabile alla Cina sul piano agricolo e demografico: l’India.
India e Giappone, tentativi di coordinamento in funzione anti-Pechino?
La stampa asiatica di fine agosto-inizio settembre ha dato ampia copertura alla visita del primo ministro indiano Narendra Modi in Giappone, procrastinata più volte per non accavallarsi con la riunione dei BRICS e dopo una tappa in Buthan volta anche ad evitare che il Giappone fosse il primo Paese estero ad essere visitato dal neoeletto Modi.
Il «Global Times» (cinese) e il «Times of India» hanno ripreso la vicenda e l’hanno inserita nel contesto delle gelide relazioni sino-giapponesi, che da più di due anni hanno trovato un fortissimo punto di attrito nella questione della sovranità sulle isole Diaoyu/Senkaku.
La vicenda innescata dal tentativo di “nazionalizzazione” delle isole da parte giapponese nel 2012 ha seriamente danneggiato le relazioni bilaterali e spinto il Giappone a diversificare gli investimenti nel Paese indiano. New Delhi ha bisogno di ammodernare il proprio sistema infrastrutturale e il Giappone ha deciso di investire nella costruzione di una ferrovia veloce Ahmedabad-Bombay sulla costa occidentale e di migliorare le infrastrutture in quella orientale dell’India, in cambio di cooperazione in campo nucleare.
La visita è concepita nell’ambito di un tentativo da parte del Giappone di costruire un “quadrilatero democratico” (India, Australia, Giappone e USA) che, seppur sul piano geopolitico appare quantomai improbabile, viste le distanze e la debolezza economica o demografica delle tre nazioni asiatiche rispetto alla Cina, si inserisce come tentativo di creazione di un’alleanza regionale in funzione anticinese, che completerebbe il quadro della teoria del “pivot asiatico” da parte statunitense. Una sorta di alleanza regionale e di completamento rispetto al “perno” o focus strategico americano nella regione dichiarato nel 2011.
In questo senso, vista la distanza geografica e culturale tra India e Giappone, e visto che l’India ha dimostrato chiaramente di tenere realisticamente in maggior conto le relazioni con la Cina rispetto a quelle col Giappone, al primo ministro giapponese Shinzo Abe non è restato che mettere in luce la complementarietà tra le due nazioni (capitali e know how rispetto a popolazione e risorse) e le caratteristiche formali di “Paesi democratici”, che unirebbero le quattro nazioni inclusi gli USA, parlando a tal proposito di “diamante di sicurezza democratica”.
Per quanto la questione inizi a creare un certo disagio nell’ambito dei BRICS, poiché, nonostante il quadro generale di cooperazione tra i due giganti asiatici, nell’ambito di questo gruppo non esistono paragonabili tensioni tra due Paesi come quelle tra Cina ed India (ritenuta spesso come il “ventre molle”dei BRICS), ciò in realtà non sembra disturbare più di tanto la Cina, se non fosse per il fatto che inserisce un’incertezza ai confini occidentali della Cina, mentre questa è impegnata sul fronte marittimo orientale nello stallo col Giappone sulle isole contese.
Il Giappone stesso ha giocato questa carta in un momento in cui la Cina è un gigante economico, ma è ancora un nano militare (per quanto anche in forte crescita), ma non si aspettava una reazione così forte e determinata da parte cinese. La questione è rimasta calda finché il Giappone ha chiesto aiuto agli USA, i quali hanno dichiarato le isole contese come parte del “Trattato di mutua difesa” con il Giappone, congelando per ora la vicenda, ma non prima delle frizioni con la Cina rispetto alla creazione da parte cinese di una “Zona di Identificazione Aerea” istituita sopra le Diaoyu/Senkaku.
Alla visita in Giappone di Modi ha fatto seguito quella del presidente cinese Xi Jinping in India dal 17 al 19 settembre. La Cina ha messo sul piatto la promessa di investire 50 miliardi di dollari nella costruzione di ferrovie in India e altri 50 miliardi di dollari nell’ammodernamento di strade e porti. Se confermato, sarebbe il triplo di quanto promesso dal Giappone durante la visita di Modi, una mossa evidentemente indirizzata a contrastare le mire Giapponesi e, vista la crescente forza economica di Pechino, piuttosto credibile nel suo intento.
Corsa al riarmo Cina-USA? La questione dell’arma ipersonica
È di pochi giorni fa l’annuncio da parte cinese di un nuovo sistema di difesa missilistico di livello paragonabile agli omologhi americani e russi e indirizzato a contrastare i voli-spia americani vicino alle coste cinesi, su cui recentemente si è riaccesa la tensione, e che nel 2004 provocarono l’incidente dell’EP3, in cui le manovre dell’aereo spia americano portarono alla morte di un pilota dell’aviazione cinese.
Vi è inoltre tutta una vicenda a parte in un settore militare sperimentale e quindi totalmente nuovo, costituito dagli esperimenti americani e cinesi sulla cosiddetta “Arma Ipersonica Avanzata”, che è destinato ad innescare una corsa al riarmo, se non regolamentato. Secondo la teoria strategica americana del Prompt Global Strike, ovvero il desiderio semi-divino da parte degli USA di colpire qualunque parte del globo in meno di un’ora, l’arma sarebbe in grado di penetare la rete missilistica antiaerea cinese, che negli anni del confronto con Taiwan è cresciuta fino a dispiegare un cuneo di superiorità tattica costituito da un gran numero di missili a media gittata (5000 km), a partire dalle basi costiere del Paese, tale che gli americani ormai non sarebbero più in grado di inabilitare il sistema di difesa cinese con armi convenzionali se non al prezzo di gravissime perdite.
Al contrario, questo missile senza testata, che viaggia a velocità superiore a quella del suono e che in quanto tale è praticamente impossibile da intercettare, e che con il suo solo peso in metallo è in grado di distruggere qualunque infrastruttura militare incontri sul suo cammino, appare per gli USA la soluzione ideale per distruggere in sicurezza le difese antiaeree e missilistiche cinesi. L’arma è stata esplicitamente citata nei documenti strategici americani resi pubblici, così come è stata resa pubblica la risposta statunitense alla teoria militare cinese recente, che prevede lo sviluppo di Capacità di Interdizione di Teatro di guerra o di Blocco, ovvero la capacità da parte cinese di bloccare l’eventuale arrivo delle navi, portaerei e sommergibili americani nella regione o di danneggiarle e renderle inutilizzabili in caso di crisi, in modo da interdire l’accesso al dispositivo militare americano nei teatri di guerra.
Questo come risposta cinese alle recenti dispute nel Pacifico occidentale col Giappone, ma anche con le Filippine e il Vietnam riguardo al fronte marittimo del Mar della Cina meridionale e alle relative isole contese.
Situazioni potenzialmente di crisi apocalittiche, visto che implicano una guerra tra le due maggiori economie del mondo e che tuttavia vengono prese molto sul serio dai comandi delle rispettive nazioni e che rischiano appunto di innescare una nuova corsa al riarmo in settori nuovi e privi di regolamentazioni internazionali paragonabili a quelle sulle armi nucleari.
D’altronde, vista la forza economica della Cina, che le sta consentendo di uscire relativamente indenne (rispetto ad altri che escono distrutti o fortemente ridimensionati) dalla più grave crisi mondiale dai tempi del 1929, la capacità del Paese di costituire un fronte di pressione militare su un unico punto o cuneo specifico che è l’Asia orientale, peraltro a solo scopo difensivo dei propri interessi e sovranità territoriale (con la Russia che le guarda le spalle e l’India relativamente sotto controllo), appare nel lungo periodo molto più efficiente e in grado di controbilanciare il sistema di alleanze e di dispiegamento militare americano che è invece di livello mondiale, disperso su più fronti e che comincia ormai a fare acqua da tutte le parti, come le vicende in Ucraina, Siria e Iraq stanno dimostrando sul campo.
Le tensioni nella penisola coreana
In questo senso le vicende delle dispute territoriali di Giappone, Filippine e Vietnam con la Cina stanno ormai mettendo in ombra i rischi di guerra nella penisola coreana, che tuttavia rimangono sullo sfondo e periodicamente hanno dei picchi di recrudescenza.
La crisi del 2013, quando la Corea del Nord ha condotto con successo esperimenti con armi nucleari, è stata innescata ufficialmente dalla condanna della Corea del Nord da parte delle Nazioni Unite per i test di quell’anno. Tuttavia va ricordato che le armi atomiche statunitensi sono presenti in Corea del Sud dal 1958 e dunque che la militarizzazione della penisola coreana non è certo stata innescata dalla Corea del Nord, la quale dal 1963 chiede assistenza per lo sviluppo di armi nucleari proprie come mezzo per bilanciare il dispiegamento nucleare americano in Corea del Sud. Il progetto, messo in atto nel 2013 anche come mezzo di pressione politico-diplomatica da parte della Corea del Nord, viene dunque da lontano e non è frutto delle ambizioni della nuova leadership. D’altronde la Corea del Nord non ha certo le dimensioni politico-economicomilitari della Cina e viene dunque sottoposta a tutta una serie di tentativi di umiliazione che l’imperialismo riserva alle “mosche” che gli si oppongono in maniera aggressiva: a partire dalla crisi nucleare, alcune voci dell’imperialismo occidentale hanno portato avanti dei piani di incursione oltreconfine allo scopo di deturpare statue raffiguranti leader nordcoreani con il preciso scopo di oltraggiare la dignità della leadership. Cosa che ovviamente ha mandato su tutte le furie la leadership nordcoreana, ma è evidente che un piano del genere, fuori da qualunque norma giuridica internazionale, è una sorta di piano da gangster e un atto di bullismo internazionale gratuito che nessun Paese al mondo meriterebbe. Nessuno stupore, dunque, se la Corea del Nord reagisce per le rime; d’altronde, nell’isolamento mediatico e cibernetico del Paese, l’imperialismo riesce a far passare Al Capone per la vittima e chi si ribella al pizzo per aggressore.
La questione è tuttavia più complessa poiché, al di là delle legittime sfere di sovranità della Corea, vi sono sei Paesi che negoziano sulla situazione coreana (Cina, Giappone Russia, USA, Corea del Nord e del Sud) e dunque qualunque evoluzione dello scacchiere coreano ha effetti immediati nelle relazioni internazionali tra i Paesi coinvolti nel gruppo a sei, poiché né Cina né Russia possono permettersi un crollo politico economico e militare della Corea del Nord, per i riflessi che avrebbe sulle regioni di confine dei due Paesi. Di conseguenza nonostante le condanne formali, in Corea si concentrano due punti di fuoco lungo il 38º parallelo, tra il blocco giapponese-statunitense-sudcoreano e il Rete dei Comunisti ritrovato asse strategico sinorusso, il che limita la capacità di freno di Cina e Russia sulla Corea del Nord. Molti, anche in Cina, sperano di controbilanciare lo strapotere economico del Sud con una crescita economica del Nord, che abbia come volano le Zone Economiche Speciali, le quali sono state effettivamente lanciate, ma ancora stentano a produrre risultati simili a quelli prodotti in Cina dagli analoghi esperimenti alla fine degli anni ’70.
Questo perché il congelamento politico militare e le ridotte dimensioni della Corea del Nord offrono scarso spazio per la crescita economica, e tuttavia, magari più lentamente che nel caso cinese, in futuro potrebbero innescare una graduale ripresa economica sufficiente per il Paese e come unica alternativa al progressivo disfacimento e degrado del sistema.