Giorgio Gattei (in Contropiano anno 23 n° 1 – febbraio 2014)
La storia si ripete perchè la si dimentica
Antonio De Viti De Marco
1.
È stato con intelligenza che la Rete dei Comunisti, quando Toni Negri si mise a profetare dopo il crollo dell’URSS l’avvento dell’Impero unipolare americano [1], gli oppose invece il precipitare del mondo in una condizione di imperialismi in competizione globale tra loro [2]. E fu altrettanto acuto il riconoscimento, fin da subito, della natura imperialista della Unione Europea in via d’accelerata espansione dopo l’introduzione dell’euro [3]. Però adesso che la contrapposizione degli interessi geo-economico-politici tra USA ed UE è più o meno generalmente riconosciuta, bisogna andare oltre prendendo ad esaminare anche la costituzione interna del polo imperialistico europeo che non è affatto formato da un insieme di nazioni omogenee e convergenti verso gli Stati Uniti d’Europa. Al contrario: esso risulta organizzato dal “nocciolo duro” di Germania e suoi satelliti attorniato dalla “periferia” dei Paesi mediterranei cosiddetti “maiali” (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), mentre la Francia si presenta sospesa tra l’appartenenza al “nocciolo duro” (come ritenuto a suo tempo da Mitterand e Sarkozy) oppure alla “periferia”, come invece cominciano a temere le agenzie internazionali di rating.
E stata questa la conseguenza della nascita di un rapporto economico asimmetrico europeo imposto dal “nocciolo duro” (d’ora in poi il “centro”) a danno della periferia. Questo rapporto di sfruttamento (perchè proprio di ciò si tratta) non ha tuttavia i caratteri classici del colonialismo con il centro che esporta manufatti in periferia ricevendone in cambio materieprime, perchè nella Zona Euro la periferia non arriva a coprire le proprie importazioni dal centro con esportazioni equivalenti (la sua bilancia commerciale infattiè in passivo, all’opposto di quella del centro che è in attivo), ma salda il disavanzo pagandolo nell’euro che è la moneta comune ad entrambi.
Tuttavia questo incasso non resta nella disponibilità del centro così che, entrando nella sua circolazione monetaria, arrivi ad aumentarne i prezzi interni scoraggiando le sue esportazioni così da riportare la bilancia commerciale al pareggio, come predicherebbe la teoria pura. Esso viene restituito dal centro alla periferia mediante sottoscrizione del debito sovrano che questa emette. E così il centro, oltre che esportatore di merci, diventa pure creditore di capitali, mentre la periferia, importatrice di merci, risulta debitrice di capitali [4], che s’impegna a restituire alla scadenza pagando nel frattempo gli interessi pattuiti. Ma il debito dovrà poi essere rimborsato al centro creditore! Certamente, ma la questione non fa problema se il debito ad ogni scadenza viene rinnovato dal centro (eventualmente ad un tasso d’interesse superiore), così che la periferia può continuare ad importare merci grazie alla disponibilità monetaria che le viene concessa di volta in volta dal centro in cambio del proprio indebitamento sovrano. A maggior garanzia di questo meccanismo di sfruttamento mercantil-finanziario è stata posta la condizione che tutti i movimenti di merci e capitali avvengano secondo un rapporto di cambio fisso tra le monete dei singoli stati, il che è stato raggiunto dal 1999 con l’adozione dell’euro quale valuta comune, così da impedire alla periferia di svalutare per rovesciare a proprio favore la bilancia commerciale come ha fatto l’Italia, con la lira, nel 1992-1993) [5].
E questo un rapporto di dominazione coloniale che la Germania, ritornata ad essere un soggetto geo-politico autonomo dopo la riunificazione con la DDR [6], ha perseguito con lucida determinazione [7] e di cui qui vorrei ricordare la profonda analogia con il piano d’integrazione monetaria teorizzato dai politici ed economisti nazisti a coronamento del Nuovo Ordine Europeo che sarebbe uscito dalla sicura vittoria (a loro giudizio) delle armate del Terzo Reich nella seconda guerra mondiale. Il testo a cui faccio riferimento è: Paolo Fonzi, La moneta nel Grande Spazio. La pianificazione nazionalsocialista monetaria europea 1939-1945 [8] che si presenta, per meticolosa documentazione, assolutamente illuminante.
2.
Nella prefazione al volume Enzo Collotti, autore dell’opera più sistematica in italiano sul Nuovo Ordine Europeo [9], così ha sintetizzato l’obiettivo geopolitico perseguito dal Terzo Reich: l’Europa doveva essere «ristrutturata secondo rigidi criteri gerarchici come una piramide al culmine della quale si ergeva la potenza dominante della Germania» [10]. Ora la storiografia antifascista ha soprattutto rivolto l’attenzione sulla dimensione di saccheggio delle risorse (dalle materie prime ai beni alimentari e alla manodopera [11]) delle nazioni progressivamente conquistate o alleate della Grande Germania [12], mentre lo studio di Fonzi allarga la visione per considerare anche le modalità che si prevedevano necessarie per imporre ad una Europa “nazificata” anche «un nuovo sistema monetario a valere non soltanto per i tempi brevi della guerra ma come istituzione permanente per il futuro» [13]. L’intenzione finale era quella, per utilizzare l’immagine proposta da Götz Aly, di mungere quanto più possibile la “vacca europea”, ma consentendole anche di partorire vitelli prima di portarla al macello [14]. Ma per farle fare vitelli non la si poteva mungere fino alla morte e per questo si richiedeva, come doveva spiegare nel 1940 il Ministro dell’Economia Walther Funk, la «costruzione di un sistema dei pagamenti europei (clearing centralizzato) [di cui poi si dirà] sulla base del marco, che consenta dal punto di vista della tecnica dei pagamenti l’afflusso di merci europee verso il mercato tedesco e in seconda linea assicuri lo scambio commerciale intra-europeo» [15]. Ora va subito detto che, se nei fatti questo piano d’unificazione monetaria non ha poi avuto modo di perfezionarsi essendo stato travolto dall’urgenza delle necessità militari, in teoria esso era stato però minuziosamente predisposto.
Il punto di partenza risiedeva nel controllo del commercio estero che era diventato l’ossessione dei politici nazisti allo scopo di mantenere la stabilità dei prezzi interni. Era questo il maggior “valore” che il nazismo intendeva garantire al popolo tedesco “scottato” dall’iperinflazione degli anni 1919-1923, come Hitler aveva ufficialmente promesso nel 1936:
«dobbiamo mantenere stabile e costante la nostra politica dei salari e quindi anche la nostra politica dei prezzi. E se qualcuno crede di potersi sottrarre a questa politica, credetemi: finché vivrò e sarò alla testa del Reich saprò difendere la ragione della preservazione di tutta la nazione contro simili pazzi!… Potremmo anche fare manovre simili a quelle fatte da altri: oggi do al lavoratore 15 o 20% in più di salario, domani alzo i prezzi del 15-20%, poi ancora una volta i salari e poi ancora i prezzi, e dopo due mesi svalutiamo il marco e imbrogliamo i risparmiatori, e poi aumentiamo di nuovo i salari e così via – credete che il popolo tedesco potrebbe diventare felice con una simile politica?» [16].
Ma come mantenere la stabilità dei prezzi interni in una economia nazionale comunque necessariamente aperta agli scambi esteri, se non altro per la necessità d’importare le materie prime di cui era priva? La soluzione trovata negli anni ’30 erano stati gli accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiar merci senza “consumare” moneta perchè le importazioni non ripagate con esportazioni venivano contabilizzate in una “camera di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa di essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 un suo sviluppo venne ritrovato nella compensazione multilaterale di questi accordi tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate cosi che, se la Germania aveva un debito verso A ma pure un credito verso B, allora B avrebbe pagato A e la Germania si sarebbe liberata dal debito. Nasceva in questo modo l’idea di un Grande Spazio Commerciale europeo di cui la Germania sarebbe stata la nazione-cardine, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «i grandi successi della We-hrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza» [17].
Ma, si domanda Fonzi, come fare a «mantenere il legame monetario con l’economia estera senza per questo abbandonare il principio della gestione politica della moneta» che si richiedeva per la stabilità dei prezzi interni? La risposta non poteva essere che «la costruzione di un ordine monetario europeo che fu il banco di prova della capacità del nazionalsocialismo di risolvere (quel suo) dilemma» [18].
3.
C’è però subito da dire che il Nuovo Ordine Monetario Europeo doveva nascere asimmetrico perchè gli stati aderenti, volontariamente o meno, sarebbero stati collocati in due diversi ordini d’importanza. Ci sarebbe stato un «cerchio interno» [19] composto dalla Grande Germania (allora impinguata dall’Austria e dei Sudeti), dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto (si diceva) nazioni affini «dal punto di vista della cultura, della civiltà e della razza», ma pure economicamente omogenee alla Germania tanto da potersi pensare ad un «livello dei prezzi, dei redditi e dei salari unitario» [20]. Al di fuori avrebbe invece gravitato il «cerchio esterno» [21] di Svezia e Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i PIGS, i Paesi “maiali”, erano già previsti!) con estensione fino all’Unione Sovietica (quando sconfitta) e alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio sul Pacifico e sul Golfo Persico. Nel cerchio esterno non era però interesse tedesco introdurre lo stesso tenore di vita che c’era in Germania e quindi i prezzi e i salari vi sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno.
Come già detto, gli scambi commerciali della Germania sarebbero avvenuti mediante accordi di clearing centralizzato in un’unica stanza di compensazione per i Paesi del cerchio interno, mentre con quelli del cerchio esterno ci sarebbero stati rapporti bilaterali di ciascuno di essi con la Germania quale unico partner di riferimento. Si sarebbero comunque unificate per tutti le procedure contabili grazie all’adozione del marco quale moneta comune, essendo evidente che, se «in futuro dovrà esserci in una grossa parte dell’Europa una valuta unitaria, non c’è alcun dubbio che qui il marco dominerà» [22]. Nell’attesa si suggeriva che le singole valute nazionali fossero legate da un cambio fisso col marco: «nell’interesse di una rivitalizzazione dell’economia sembra desiderabile che in Europa venga creata una regione monetaria il più possibile unitaria. Per questo sarebbe necessario almeno che le monete dei diversi Paesi europei fossero messe in un rapporto di cambio fisso tra loro, in modo che l’economia potesse contare con numeri costanti. Sarebbe una semplificazione del lavoro quotidiano se fosse introdotta in Europa solo una moneta unitaria. E prevedibile che ciò incontri difficoltà, ma la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria» [23].
E come metterla con la circolazione bancaria? Un primo memorandum del Ministero dell’Economia aveva previsto che le banche centrali dei singoli Paesi si sarebbero trasformate in filiali della Reichsbank [24], mentre un secondo proponeva la costituzione di una Banca Europea (con sede a Vienna che allora era in Germania) «che sarebbe servita, in caso di unione monetaria o federazione monetaria, al conteggio incrociato dei saldi tra i Paesi associati» e con il capitale sottoscritto dalle banche centrali nazionali in proporzione alla «misura in cui ogni Paese era disposto a concedere credito alla Banca Europea, ovvero alla misura in cui esso avrebbe esportato senza contropartita» [25]. Ma quale strategia monetaria avrebbe dovuto adottare questa futura Banca Centrale Europea? Dominando comunque la paura dell’inflazione (in questo caso di natura bancaria), ci si affidava ad una «limitata possibilità di creazione autonoma di credito (in cui) risiede la possibilità di un dominio politico della costruzione economica europea da parte della Banca europea, in cui naturalmente la Germania deve essere predominante» [26].
Se finora appare straordinaria la somiglianza del progetto nazista d’unificazione monetaria europea con l’attuale Unione Monetaria, l’analogia non va però spinta più oltre perchè la Germania di oggi risulta, come s’è detto, esportatrice di merci e capitali, mentre il Terzo Reich all’incontrano importava merci (il suo disavanzo commerciale salì dai 409 milioni di marchi del 1939 ai 15,8 miliardi di marchi nel 1944) costringendolo a gestire oculatamente il pagamento monetario a saldo. E comunque quel progetto di unificazione monetaria avrebbe dovuto funzionare soprattutto dopo la guerra quando la Germania vittoriosa avrebbe potuto esportare un adeguato valore di merci a fronte delle proprie importazioni. Lo aveva previsto nel 1942 un collaboratore del Governatorato di Vienna: «nell’Europa sud-orientale per il momento dobbiamo praticare solo una politica coloniale, cioè trarre dalla terra tutto ciò di cui quei popoli possono fare a meno senza impoverirsi completamente. Soltanto dopo la guerra potremo cambiare gradualmente questa politica elevando il tenore di vita di quelle popolazioni mettendole in grado di assorbire i prodotti dell’Europa industriale» [27].
4.
Eppure quel momento non giunse mai perchè le necessità del (non previsto) prolungamento della guerra finirono per travolgere il progetto di Unione Monetaria sostituito dalla logica dello sfruttamento indiscriminato delle risorse altrui (come a dire che la Germania nazista fu costretta a mungere fino alla morte la sua “vacca europea” ancor prima di metterla in grado di partorire vitelli). Di tutto questo si dà conto negli ultimi capitoli del libro di Fonzi. Se con l’attacco all’URSS si era sperato di poter pareggiare con le requisizioni militari il precedente scambio commerciale con i sovietici, alla prova dei fatti il guadagno non compensò la perdita, così che la Germania si trovò costretta a dipendere dall’«incremento dello sfruttamento dei territori occidentali e degli alleati europei. Ma questo sfruttamento ebbe per tutti i popoli europei un’unica manifestazione: l’inflazione» [28], così che «la Germania, che fino al 1940 era stata un Paese relativamente caro, si trasformava lentamente in un’isola di prezzi stabili circondata da un mare [d’inflazione] il cui livello minacciava di superare i limiti di guardia e di invadere la terraferma» [29].
A fronte dei maggiori prezzi delle merci importate il debito tedesco di clearing crebbe a dismisura (dai 335 milioni di marchi del 1939 ai 33.483 del 1944) [30], il che avrebbe obbligato i tedeschi, come ammoniva un memorandum del novembre 1942, ad esportare merci senza contropartita per molti anni dopo la guerra rendendo difficile la ricostruzione ed impossibile l’aumento dei consumi interni [31]. Come rimediare allora? Nel memorandum si proponeva di abbandonare il cambio fisso e di rivalutare il marco rispetto alle altre valute per ridurre il costo delle importazioni, mentre il debito pregresso avrebbe dovuto essere ricalcolato nelle nuove monete svalutate (ma questo solo per i Paesi alleati e neutrali, perchè a quelli vinti il debito non sarebbe nemmeno stato pagato a titolo di riparazione di guerra). «Il Ministro dell’Economia ha proclamato innumerevoli volte per l’economia europea il principio: prezzi fìssi, monete fisse!… In linea di principio bisogna essere d’accordo con la richiesta di prezzi e cambi stabili, ma il loro mantenimento unilaterale rispetto ai cambi è senza senso» [32]. Altrettanto veniva richiesto a metà del 1943 dal Commissario del Reich per la formazione dei prezzi: «una collaborazione economica sulla base di cambi stabili può essere mantenuta solo se si può assicurare un congruenza tra gli sviluppi dei prezzi; poiché questo in considerazione dei diversi interessi dei singoli Paesi e delle loro possibilità amministrative sembra diffìcilmente realizzabile, nella lunga prospettiva si dovrà mirare ad una soluzione in direzione di corsi di cambio mutevoli» [33]. Ma non ci fu nulla da fare: nella riunione del 2-3 aprile 1943, quando si arrivò ad una sorta di resa dei conti con i “professori” favorevoli all’abbandono della stabilità del cambio, gli uomini delle istituzioni (Ministero dell’Economia e Banca Centrale) vi si opposero fermamente e d’allora in poi «la Reichsbank cercò anche di bloccare il più possibile una discussione pubblica su questo tema» [34].
5.
Ma oggi? Oggi la Grande Germania, ritornata egemone in Europa, ha realizzato proprio la prospettiva immaginata dai politici ed economisti nazisti per il dopoguerra vittorioso: di rendersi finalmente esportatrice netta di merci nei confronti della periferia. Dopo la costituzione della Unione Monetaria ha perseguito con lucida determinazione una politica commerciale decisamente (seppur non dichiaratamente) “mercantilistica” fatta di rigore fiscale e moderazione salariale spinta (le ed. “riforme Hartz”) all’interno, anche a costo di deprimere la domanda nazionale, ma più che compensata dalla vendita di merci all’estero al punto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione» [35]. Ma il disavanzo commerciale, che si è venuto così a formare in periferia, non ha più potuto essere corretto con le “svalutazioni competitive” da parte dei Paesi importatori (come fatto in precedenza) per il vincolo della moneta unica, finendo per ingigantirsi negli anni.
A sostegno della capacità di spesa della periferia sono poi intervenuti i prestiti di capitali dal centro, da cui l’indebitamento progressivo di quella, mentre il centro otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sui capitali prestati e di assicurarsi, grazie a quell’imprestito, un mercato di sbocco privilegiato perchè privo di rischio di cambio per la dominanza dell’euro. Il gioco non è tuttavia senza rischio perchè, se da un lato la periferia si deindustrializza venendo inondata dalle merci straniere, dall’altro il centro si fa partecipe dell’instabilità finanziaria della periferia per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. Così, quando hanno cominciato a presentarsi casi d’insolvibilità (come in Grecia e a Cipro), al centro si è temuto che il proprio credito potesse venire “ripudiato” dalla periferia e si è corso ai ripari richiedendone, almeno in parte, il rientro forzoso.
Questo è stato imposto con il Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, impropriamente detto “Fiscal Compact”, firmato in 2 marzo 2102 dai capi di Stato e di governo della zona-euro (approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano con legge costituzionale a maggioranza “rinforzata” per escludere il ricorso al referendum confermativo popolare). Con esso si sono irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano in un modo tale che, a detta di alcuni, il Fiscal Compact può rappresentare, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica» [36]. Ma la sua applicazione, si continua, potrebbe avere l’effetto di portare «ad una forma di austerità perpetua e ad un rischio estremamente concreto di esplosione della zona euro» [37] . Vediamo come.
6.
Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 il pareggio di bilancio (e non più il disavanzo entro il tetto del 3% del PIL), così che le spese statali risultino integralmente coperte da imposte e tasse, e se ciò non si farà è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i Paesi colpevoli d’infrazione di qualsiasi potere decisionale proprio. Ma è l’articolo 4 il più devastante perché impone di ridurre il debito pubblico al 60% del PIL nell’arco di 20 anni a partire dal 2014, poi portato al 2015 (per capire l’entità dello sforzo finanziario richiesto si valuti che per l’Italia, che ha un debito pubblico di oltre 2000 miliardi di euro, pari a più del 120% del PIL, per vent’anni il bilancio statale verrebbe gravato di una quota di restituzione del debito di almeno 50 miliardi all’anno). E questa la miccia capace di far deflagrare l’Unione Monetaria Europea perchè paradossalmente esso porta all’aumento, invece che alla diminuzione, del rapporto Debito pubblico/PIL con l’effetto, secondo uno studio condotto da tre istituti economici indipendenti di Francia, Austria e Germania, di «ampliare all’interno della zona euro il divario tra i Paesi del sud d’Europa e la Germania e gli altri Paesi del Centro e Nord Europa» [38].
Ma perchè un simile perverso provvedimento è stato introdotto? Coloro che l’hanno redatto tenevano pur conto che una riduzione del debito pubblico produce effetti negativi sul PIL, ma si affidavano evidentemente alle stime del Fondo Monetario Internazionale per il quale, almeno nei Paesi avanzati, ad un punto di “contrazione fiscale” (maggiori imposte e tasse e/o tagli allaspesa pubblica) corrispondeva un calo del PIL dello 0,5%, il che garantiva la riduzione del rapporto Debito/PIL (la relazione passa attraverso quello che è denominato il “moltiplicatore fiscale” che qui non è possibile discutere). Purtroppo, all’inizio del 2013, lo stesso FMI ha rivelato che quella stima è valida soltanto nel caso di crescita economica perchè in recessione il calo del PIL sale invece all’1,7% vanificando la diminuzione del rapporto Debito/PIL e quindi costringendo ad un ulteriore intervento di “contrazione fiscale” con successivo aumento del rapporto, e così via seguitando in una spirale negativa verso la depressione [39]. Per questo «il consolidamento fiscale può generare e spesso realmente genera un circolo vizioso che rende il debito pubblico sempre più insostenibile. E sappiamo che in una depressione prolungata la capacità produttiva non solo rimane inutilizzata, ma viene distrutta: le imprese chiudono e solo tutt’al più una frazione del loro capitale produttivo viene riutilizzato altrove in altri usi produttivi. Anche il capitale umano viene distrutto: i lavoratori in esubero si disperdono e le loro qualifiche vanno perdute o dimenticate o diventano obsolete» [40].
Tutto questo finirebbe per succedere in periferia. E al centro? Di fronte al collasso economico di quella, esso si vedrebbe restringere l’area privilegiata d’esportazione delle proprie merci, dovendo andare a ricercarsi altri sbocchi esterni all’eurozona (a meno che al centro non si decidesse di puntare sul rilancio del mercato interno aumentando, che so?, la massa salariale oppure la spesa pubblica, ma con conseguenze negative sulla stabilità dei prezzi). Però fuori dalla zona-euro il centro deve confrontarsi con le valute altrui, come il dollaro o lo yen, così che la sostituzione delle comode esportazioni periferiche, prive di rischio di cambio, con quelle extra-euro, dove invece quel rischio c’è, potrebbe diventare difficoltosa. La sostituzione potrebbe non finire “a somma zero” (come si dice) e allora, per guadagnare più mercato estero, potrebbe essere necessaria la svalutazione competitiva dell’euro. Ma questa è soltanto una possibile soluzione, perchè ci potrebbe essere l’alternativa dell’arroccamento in difesa della supremazia della valuta europea abbandonando al proprio destino la periferia mediante la fuoriuscita del centro dalla moneta unica.
Resta da chiedersi quale potrebbe essere il comportamento della Germania, il centro del “centro”, se posta davanti all’alternativa di sostenere l’interesse degli esportatori svalutando l’euro oppure difenderne ad ogni costo il valore nell’interesse dei risparmiatori. Non so abbastanza sulla situazione economica interna tedesca per dar lumi in proposito. Tuttavia l’esperienza di fallimento del progetto nazista di unificazione monetaria europea sotto l’urto delle “superiori” esigenze militari di saccheggiare l’intero continente pur di vincere la guerra non lascia bene sperare. Questa volta potrebbe essere la “superiore” volontà dei risparmiatori di riavere comunque indietro i propri soldi incautamente prestati alla periferia a condurre al fallimento dell’esperimento dell’euro quale moneta unica e stabile di centro e di periferia. E nuovamente la “vacca europea” verrebbe munta fino alla morte senza consentirle di partorire vitelli.
NOTE
[1] ↑ M. Hardt e T. Negri , Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
[2] ↑ L. Vasapollo (a cura di), I/ piano inclinato del capitale. Crisi, competizione globale e guerre, Jaca Book, Milano, 2003; M. Casadio, J. Petras e L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze. La realtà della globalizzazione, Jaca Book, Milano, 2004; L. Vasapollo, M. Casadio, J. Petras e H. Veltmeyer, Competizione globale, Jaca Book, Milano, 2004.
[3] ↑ R. Martufi e L. Vasapollo, Euro Bang. La sfida del polo europeo nella competizione globale, MediaPrint, Roma, 2000; J. Arriola e L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, Jaca Book, Milano, 2004; L’Europa superpotenza. I comunisti, la democrazia e l’Europa, Quaderni di Contropiano per la Rete dei Comunisti, Roma, 2005.
[4] ↑ Cfr. E. Brancaccio, M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano, 2012.
[5] ↑ Cfr. A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 154-165.
[6] ↑ G. Gattei e M. Roccati, Era il 1992. L’anno della rinascita geopolitica della Germania. Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2012.
[7] ↑ G. Gattei, La Germania contro tutti, in Il vicolo cieco del capitale. A che punto è la crisi sistemica?, Atti del forum della Rete dei Comunisti, Roma, 2012.
[8] ↑ P. Fonzi, La moneta nel Grande Spazio. La pianificazione nazionalsocialista dell’integrazione monetaria europea 1939-1945, Unicopli, Milano, 2011.
[9] ↑ E. Collotti, L’Europa nazista: il progetto di un Nuovo Ordine Europeo 1939-1945, Giunti, Firenze, 2002.
[10] ↑ E. Collotti, Prefazione a P. Fonzi, op. cit., p. III.
[11] ↑ Manodopera anche: avendo deciso di non aumentare l’occupazione femminile nazionale (che dai 14,6 milioni di unità del 1939 passò ad appena 14,9 milioni nel 1944) fu giocoforza sostituire gli uomini sotto le armi con forza-lavoro straniera importata: 8 milioni di civili volontari attratti dalle maggiori remunerazioni in Germania e 5,5 milioni di prigionieri di guerra e detenuti nei campi di lavoro e sterminio.
[12] ↑ Cfr. G. Corni, Il sogno del Grande Spazio. Le politiche di occupazione nella Europa nazista, Laterza, Bari, 2005.
[13] ↑ E. Collotti, op. cit., p. VI.
[14] ↑ G. Aly, Lo Stato sociale di Hitler. Rapina, guerra e nazionalsocialismo, Einaudi, Torino, 2007, p. 350.
[15] ↑ Cit. in P. Ponzi, op. cit., p. 175.
[16] ↑ Cit. in P. Fonzi, op. cit., p. 75.
[18] ↑ R. Fonzi, op. cit., p. 12.
[24] ↑ R. Fonzi, op. cit., p. 158.
[27] ↑ Cit. in G. Corni, op. cit., p. 231.
[28] ↑ P. Fonzi, op. cit, p. 281.
[35] ↑ S. Cesaratto e A. Stirati, Germany and the European and Global Crisis, in “Quaderni del Dipartimento di Economia politica dell’Università di Siena”, 2011, n. 607, p. 3; cfr. anche S. Cesaratto, Il vecchio e il nuovo della crisi europea, in S. Cesaratto e M. Pivetti (a cura di), Oltre l’austerità,www.micromega.net, 2012, pp. 26-43.
[36] ↑ B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, Cosa salverà europa. Critiche e proposte per un’economia diversa, Minimum Fax, Roma, 2013, p. 8
[39] ↑ Cfr. O. Blanchard e D. Leigh, Growth forecast errors and fiscal multipliers, in “IMF Working Paper”, 2013, n. 1. Per una dimostrazione algebrica cfr. D. M. Nuti, Gli effetti perversi del consolidamento fiscale, in www.sbilanciamoci.info.