Ormai è chiaro che siamo entrati in un nuovo tornante storico dell’attuale modello di sviluppo aprendo prospettive indeterminate e non prevedibili. Di questo ne hanno contezza soprattutto le classi dirigenti e/o dominanti, a seconda del paese, che si trovano di fronte a scenari completamente inediti.
Abbiamo alle spalle un trentennio caratterizzato dalla capitalistizzazione del mondo intero raggiunta in seguito alla sconfitta del primo esperimento socialista della storia attuato in Europa, sconfitta che ha permesso una dimensione del capitale mondiale mai vista prima ed un mondo ad egemonia unica USA.
Negli anni ’80, nell’era bipolare, la dimensione del capitale nella sua forma finanziaria aveva già “saturato” la parte del mondo capitalista tanto da generare l’immiserimento di interi continenti, vedi la crisi del debito dei paesi latino americani governati da giunte golpiste filo USA, ed una tensione militare internazionale crescente concretizzatasi con la promozione delle cosiddette guerre stellari ed una pressione militare diretta sull’URSS in particolare a sostegno degli integralisti islamici in Afghanistan.
Il crollo dell’URSS ha spalancato spazi immensi alla crescita dei capitali, ulteriormente allargati dalla politica Cinese di apertura alle multinazionali straniere e statunitensi in particolare. In altre parole la massa di capitale finanziario accumulatasi nel decennio precedente per superare la crisi di sovrapproduzione di merci degli anni ’70 ha trovato spazi di investimento produttivo e poi ancora finanziario permettendo un ventennio di crescita economica e di piena egemonia occidentale.
Investimenti che non solo hanno rilanciato i profitti ma hanno ridisegnato le classi a livello internazionale, al centro e nella periferia produttiva, grazie all’enorme sviluppo delle forze produttive scientifiche, tecnologiche e di disponibilità di forza lavoro a basso costo.
Quella fase è stata “inceppata” dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007 protrattasi in varie forme per il decennio successivo, vedi le varie crisi da debito pubblico in UE, ed oggi porta direttamente ad una rimessa in discussione dell’assetto internazionale uscito da quel ventennio succeduto alla fine dell’URSS.
Siamo perciò chiamati a elaborare un’analisi complessiva che sia in grado di interpretare gli sviluppi futuri delle enormi contraddizioni che ci lascia un trentennio di sviluppo segnato solo dalla logica del profitto e dal neoliberismo più sfrenato. Ovviamente non pretendiamo di prevedere il futuro ma pensiamo che si possa analizzare ed interpretare gli scenari e gli sviluppi possibili essendo coscienti che questi andranno sottoposti alla verifica del reale.
E’ a questo punto che ci si pone un nodo teorico relativo alle categorie da usare in questo tentativo di interpretazione dei processi in atto, certamente possiamo dire di essere in una accentuata competizione tra capitali che si riflette nelle politiche degli Stati e ne determina la tendenza al conflitto economico e di classe fino a quello bellico.
Insomma ci dobbiamo misurare con “forme” di espressione delle contraddizioni del capitale necessariamente da interpretare ma insufficienti per comprendere i sommovimenti di fondo della rottura epocale in atto che ha lo spessore di quella prodotta all’inizio degli anni ’90 ma con un segno politico opposto in quanto rimette in discussione il ruolo e l’egemonia degli imperialismi occidentali.
Ormai da tempo come RdC utilizziamo la chiave di lettura della dinamica del “Modo di Produzione Capitalista” che in una visione marxista va oltre l’analisi dei singoli capitalismi, imperialismi e dei fenomeni concreti ma tenta di interpretare le prospettive in base alle sue contraddizioni interne.
Certamente la crisi attuale si presenta come conflitto generalizzato e articolato a differenza del bipolarismo del XX° secolo; appare come conflitto tra capitali che a livello mondiale competono per acquisire profitti sia nella sfera produttiva che in quella, molto più consistente, della rendita finanziaria registrando però difficoltà crescenti nel poter valorizzare una massa sempre più enorme del capitale mondiale complessivo.
Si manifesta anche come conflitto di classe nonostante la disarticolazione politica della classe lavoratrice e delle classi subalterne prodotta dalla precedente sconfitta e riprende fiato in tutto il globo in forme molto diversificate, per molti versi inedite.
Queste vanno dalla insubordinazione prodotta dai movimenti sociali dell’America Latina, oggi governata per l’80% da governi di sinistra più o meno radicali, al conflitto politico e militare che attraversa tutta l’Africa, da quella subsahariana contro l’imperialismo francese/UE a quella meridionale dove il Sud Africa svolge un ruolo di punta stando nei BRICS alleanza che rimette in discussione economicamente l’egemonia imperialista.
Nell’Asia dove il conflitto di classe più classico, ad esempio quello che esiste nel subcontinente indiano, si interseca e si intreccia in modo inedito con rivendicazioni nazionali, come quelle nel medio oriente, e con il ruolo degli Stati, di cui la Cina governata dal Partito Comunista ne è il punto più forte e di maggior contraddizione per gli imperialismi occidentali.
Nell’occidente capitalista il conflitto di classe è naturalmente più arretrato in quanto condizionato dal ruolo imperialista dei propri Stati ma tende ad emergere nella dimensione produttiva e della circolazione ed anche a livello sociale e politico ma con forme anomale e spurie rispetto alla storia del movimento operaio in particolare in Europa.
Questa tensione verso il conflitto tracima anche nella dimensione bellica; la vicenda Ucraina è probabilmente un evento che ne prepara altri e con un segno ben diverso da quello avuto dalle guerre a cavallo del secolo dove USA/UE/NATO la facevano da padroni con il silenzio e l’assenso del resto del mondo.
Oggi in prima linea ci sono direttamente le grandi potenze, sta accadendo in Europa dove il confronto in Ucraina è in realtà quello tra Russia e NATO e dove altri focolai di guerra covano sotto la cenere come sta avvenendo nel Kosovo.
Sta accadendo in estremo oriente dove Taiwan e la Corea sono due focolai di guerra pronti a manifestarsi appena le condizioni lo permetteranno e comunque zone dove l’instabilità politica e militare si protrarrà per lungo tempo.
Questi aspetti, qui sommariamente elencati per ovvi motivi di spazio, possono essere oggetto di analisi più o meno approfondite, di valutazioni geopolitiche e portare a determinate scelte politiche ma non sono il cuore della contraddizione che sta generando un rimescolamento completo di quello che si voleva spacciare per un equilibrio possibile solo dentro l’orizzonte del capitalismo e del profitto elevato a “bussola” mondiale e definitiva.
Analizzare questo quadro complessivo e le specifiche relazioni tra le sue parti, cosa politicamente necessaria, non ci dice nulla sulle prospettive se non andiamo al processo che genera questa stato di cose.
Quello che ora ci appare come forma concreta del multiforme conflitto mondiale in realtà sono forme dileguanti, transitorie, che vengono superati sistematicamente dallo sviluppo della dinamica processuale del Modo di Produzione Capitalista.
Per capire la dinamica di cui stiamo scrivendo bisogna sapere che il MPC non ci da la descrizione del capitalismo/i concreto/i nel tempo e nello spazio attuali con cui abbiamo a che fare quotidianamente nel conflitto politico e sociale, qui e nel resto del mondo, ma è un modello di processo che ci dice come si riproduce, ampliandolo, l’assetto sociale in forma capitalista.
In termini più concreti è quella tendenza epocale che produce la generalizzazione della produzione capitalista e della circolazione di merci, cioè la propria mondializzazione; la produce sussumendo tutte quelle forme sociali non capitaliste, come abbiamo visto “in diretta” con quello che era il campo socialista, e la produce in modo contraddittorio in termini di funzione/unità e conflitto.
Nella generalizzazione suddetta viene prodotta una massa di capitali che è funzione/unità del capitale mondiale ma anche foriera del conflitto tra capitali; quello che sta avvenendo è che dopo una fase di crescita in cui c’era per tutti un ampio e “profittevole” spazio da coprire oggi invece si afferma la competizione tra capitali.
Come pure avviene nella relazione tra le classi dove dopo una fase di egemonia borghese sulle classi subalterne si viene a generare la fase del conflitto, anche qui funzione/unità e conflitto sono i termini della generalizzazione del capitale. In sintesi se la generalizzazione delle relazioni produttive e sociali è l’oggetto della mondializzazione del MPC funzione/unità e conflitto sono la forma del processo complessivo.
La generalizzazione/mondializzazione in atto dagli anni ’90 oggi è in una crisi oggettiva, empiricamente verificabile, che si manifesta attraverso forme diversificate in base alle condizioni specifiche e storiche dei diversi paesi, ma ancora una volta se è necessario politicamente analizzare, capire e, se possibile, agire su queste crisi è indispensabile in via prioritaria capire qual è la contraddizione di fondo che oggi sta scuotendo l’assetto mondiale in tutti i suoi aspetti.
Dunque oltre gli specifici va individuato il meccanismo di fondo che prima ha generalizzato la produzione basata sullo sfruttamento e la circolazione delle merci ed ora ne generalizza la crisi; nel moto epocale del MPC il limite della produzione capitalistica è “il capitale stesso” a causa del contrasto tra lo sviluppo incondizionato della “forza produttiva del lavoro associato” e della “valorizzazione”, cioè della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive ed i rapporti sociali di produzione.
Questo limite, che agisce sempre in quanto contraddizione fondamentale del MPC, si rivela concretamente, materialmente, a partire da un certo grado di diffusione e maturità del suddetto modo di produzione e si manifesta anche nelle crisi economiche.
Per questo aspetto le crisi sono modi di regolazione del processo, “risoluzione violenta” di aspetti “violentemente” entrati in contrasto, premesse di un nuovo ciclo di valorizzazione. Ma la dimensione sempre maggiore e la tendenzialità epocale del movimento del capitale avanza verso l’inadeguatezza della autoregolazione complessiva mediante il valore che è il suo unico orizzonte processuale.
Se la fase post ’91 è facilmente individuabile come periodo in cui si conferma il moto processuale del MPC con la mondializzazione effettiva della produzione capitalista la stessa chiave di lettura può essere applicata al decennio successivo.
Come Rete dei Comunisti abbiamo definito quella fase come “stallo degli imperialismi” cioè come un periodo in cui gli equilibri stabiliti precedentemente nella cosiddetta globalizzazione si manifestavano esattamente come “momento dileguante” ed in via di superamento.
Si cominciavano, infatti, ad intravvedere i limiti al modo di produzione che nella sua pulsione generalizzatrice per la valorizzazione del capitale travalicava, forzava, le condizioni materiali che non potevano permettere una prospettiva di ulteriore crescita.
Il dato strutturale era quello che stava divenendo una gabbia sempre più stretta per i processi capitalistici; appunto questi limiti sono il prodotto della maturazione delle contraddizioni di fondo che hanno portato a quella mondializzazione del MPC prevista da Marx ma anche alla crisi dei processi di valorizzazione del capitale mondiale complessivo.
Ormai da circa un decennio tali limiti si manifestano per quelli che sono, ed anche le mistificazioni ideologiche fatte dalle forze borghesi, ed anche dalle cosiddette “sinistre”, a copertura della natura di tali contraddizioni vengono meno.
Cerchiamo di definire i caratteri di tali limiti che allo stato sembrano difficilmente superabili per via non conflittuale, come avvenuto fino all’inizio del decennio precedente.
1) Limite dato dalla tendenza storica della caduta tendenziale del saggio di profitto prodotta dall’aumentato peso della tecnologia e della scienza nella produzione e la drastica riduzione del lavoro vivo cioè di quella parte che produce valore. Questa è la chiave di lettura complessiva della crisi periodiche del capitalismo, ma l’accumulazione di capitale fisso (macchinari, tecnologia, reti telematiche, etc.) è arrivata nell’epoca attuale ad un livello mai visto in precedenza limitando sempre più l’apporto del capitale variabile alla produzione, cioè dei lavoratori.
Questa divaricazione mette in crisi i processi di valorizzazione in quanto la parte di capitale che produce valore è quella investita nella forza lavoro che nella tendenza storica viene sempre più ridotta. Questo effetto è il prodotto della legge del valore di Marx ripudiata da tanti marxisti ma che oggi si “vendica” mostrando oggettivamente la propria vigenza.
Ma lo sviluppo esponenziale che si è prodotto sulle forze produttive ha incrementato la massa dei profitti ma ha anche moltiplicato i competitori economici in quanto paesi che fino a ieri erano sostanzialmente ai margini dello sviluppo, vedi la Cina degli anni ’70 e non solo, sono divenuti competitori economici ed anche militari in quanto lo diffusione pervasiva dello sviluppo tecnologico ha permesso la rimessa in discussione anche degli equilibri militari.
2) Limite dei mercati mondiali che non possono ulteriormente svilupparsi se non per porzioni inadeguate alla massa di capitale circolante a livello mondiale. La Cina e l’ex campo socialista è stata l’ultima frontiera, il “far east”, che si è aperta al capitale seguita dall’India e da altri paesi della ex periferia produttiva, ed ulteriori allargamenti significativi all’oggi non sono materialmente dati.
La controtendenza agli effetti della contraddizione sopra descritta al punto 1, cioè l’aumento della composizione organica di capitale e la riduzione del saggio di profitto, è stata prodotta nel tempo con l’allargamento dei mercati mondiali e dall’affermazione dell’imperialismo nelle sue variegate forme con l’accentramento e la fusione di capitali ed imprese.
L’Africa, l’America Latina, altre parti dell’Asia possono essere ancora inserite nel processo di valorizzazione ma la dimensione di queste non è paragonabile ad un rilancio della crescita estensiva su grande scala come è accaduto negli anni ’90.
3) Limite all’uso della leva finanziaria che manifesta sempre più un carattere di sovrapproduzione di capitale con rischi di esplosione di bolle speculative.
I “quantitative easing”, i tassi a zero o addirittura negativi, le banche sovraesposte nei prestiti non garantiti, le bolle speculative di vario tipo, le criptomonete sono tutti i sintomi di una sovrapproduzione di capitale praticata per tutto il decennio precedente che, nel momento in cui diverrà palese, produrrà effetti disastrosi e sancirà l’inadeguatezza anche di questo strumento usato a piene mani fin dagli anni ’80.
La ripresa dell’inflazione nella crisi attuale ed il conseguente rialzo dei tassi di interesse praticato dalle banche centrali dei paesi imperialisti, Fed, BCE e BoJ, stanno li a dimostrarlo e sono il preludio a difficoltà ben più ampie.
4) Limite dato alla compressione ormai quarantennale dei salari diretti, indiretti e differiti che hanno prodotto a livello mondiale diseguaglianze sociali profonde, crisi delle istituzioni e della politica in generale quali strumenti dell’egemonia della classi dominanti.
Dalla modifica proporzionale tra capitale fisso e variabile, la forza lavoro, emerge un ulteriore limite interno alla crescita del mercato infatti la riduzione del salario sociale complessivo deprime il mercato ed accelera i processi di ristrutturazione che chiedono sempre meno forza lavoro e sempre più occupata in modo flessibile e precario, tendenza questa acceleratasi in particolare nei centri imperialisti.
I conseguenti fenomeni politici ed istituzionali che possiamo vedere ad esempio nel nostro paese con l’affermazione di un forte astensionismo e di movimenti irrazionali, prima del Movimento 5 Stelle poi quello della Lega ed oggi della destra parafascista, mostrano che il peggioramento complessivo produce effetti reazionari se non ci sono forze di classe in grado di orientare il malessere sociale.
5) Limite ambientale come dato oggettivo anche se i tentativi di usare la crisi ambientale per ricostruire i livelli di profitto con maggiori investimenti in tecnologie “green” da parte del pubblico ma a sostegno del privato sono destinati alla sconfitta come dimostra il paradossale ritorno nel pieno della crisi energetica al carbone ed al nucleare “pulito”.
In questo ambito il tentativo di intervento con le sbandierate politiche di “Green New Deal” hanno anche l’obiettivo di rallentare risposte politiche conflittuali direttamente anticapitalistiche ma che, non per questo, ne possono impedirne l’espressione. La questione del clima, quella dell’energia, dei territori degradati sono elementi che tendenzialmente si imporranno come limite ulteriore ai processi di valorizzazione.
6) La pandemia Covid e la guerra in Ucraina nascono dalle contraddizioni accumulate nel decennio precedente. La pandemia come incapacità di un sistema mondializzato basato sul profitto di gestire gli effetti sociali di uno sviluppo irrazionale, appunto la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali.
La riduzione del ruolo pubblico e della spesa sociale associati alla generalizzazione delle privatizzazioni sono stati i veri “veicoli” della pandemia.
La guerra come effetto della competizione che spinge le forze imperialiste a conquistare nuovi spazi dove incrementare la valorizzazione. Il conflitto in Ucraina è stato prodotto dal 2014 con l’illusione che la Russia avrebbe mantenuto la subalternità mostrata nel periodo eltsiniano, come ha ammesso la stessa Merkel quando ha confessato che gli accordi di Minsk servivano a dare fiato e rafforzare l’Ucraina per poter rilanciare la UE e la NATO in quell’area.
Comunque questi due eventi hanno accentuato i limiti allo sviluppo del mercato mondiale ed hanno segnato “formalmente” l’inversione di tendenza verso la sua frammentazione.
Alla tendenza processuale del capitale verso una crescita infinita ormai si sono manifestati limiti che contengono tale spinta introiettandoli nel ciclo economico e sviluppando ulteriori contrasti nella forma di una feroce competizione tra capitali.
Questo non significa sposare ipotesi “crolliste”, ma è ipotizzabile l’apertura di una lunga fase di instabilità a tutti i livelli che caratterizzeranno i prossimi tempi; è in definitiva questa instabilità che stiamo attraversando ed oggi si realizza un nuovo salto di qualità.
Alcuni elementi ci aiutano a dare delle coordinate per la lettura del nuovo scenario mondiale ed abbiamo tentato di enuclearli nel corso di questi ultimi 6 anni, da quando abbiamo iniziato ad analizzare il cambio di fase storica a partire dal convegno del 2016 “Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”.
Ovviamente, come sapeva il Lenin che aveva letto Hegel, la realtà contiene più determinazioni di quante gli esseri umani possano cogliere, ma la sfida teorica, necessaria per la prassi, è cogliere quelle essenziali e scorgere i necessari collegamenti. Ed è questa oggi la nuova sfida che dobbiamo saper accettare.
Mantenendo salda la chiave di lettura processuale del MPC va fatto uno sforzo di previsione sugli scenari futuri che ci permetta di collocare l’azione della nostra soggettività nei nuovi contesti potenziali e possibili. Preferiamo parlare di scenari piuttosto che di previsioni in quanto la complessità della realtà mondiale è molto alta e dunque riconfermiamo che non è possibile mettere le braghe al mondo, ne ieri ne oggi.
Se appare, al livello attuale di sviluppo della mondializzazione, quella che abbiamo definito “l’autoregolamentazione del valore” non svolgere più la sua funzione entra in crisi la spinta all’unificazione dei mercati, processo storicamente verificatosi fino agli anni ’10 circa.
Andiamo, perciò, incontro ad una frammentazione del mercato mondiale in quanto i limiti descritti nel precedente paragrafo più gli altri che si sono aggiunti nel frattempo, quali la pandemia e la guerra guerreggiata diffusa, stanno producendo una “implosione” della cosiddetta globalizzazione con una ripresa della competizione tra capitali in base a quello che abbiamo definito funzione/conflitto come una manifestazione del processo del MPC.
Se tracciamo una linea da questo nuovo punto di partenza della inversione di tendenza all’unificazione dei mercati la lettura dei fatti concreti che stanno avvenendo a livello mondiale diviene molto più chiara.
La definizione dei “confini” tra i blocchi economici principali segnati dalla moltiplicazione delle sanzioni e dei dazi, quello Euroatlantico ed Euroasiatico, la costituzioni di altri aggregati economici, da quello dei paesi arabi attorno all’Arabia Saudita a quello ancora potenziale dell’America Latina, possiamo dire che il “nuovo” stia effettivamente nascendo.
In forme che, seppur lontane dalle nostre aspettative, rompono l’egemonia degli imperialismi occidentali rimettendo in moto la “Storia” verso un nuovo assetto su cui dobbiamo esercitare la nostra capacità di analisi ed elaborazione.
Dobbiamo perciò tracciare gli assi analitici che ci permettano di cogliere la traduzione concreta delle tendenze di fondo individuate sul piano degli effetti oggettivi e sui risvolti prodotti nella pratica politica soggettiva da adottare nelle condizioni in evoluzione che stiamo tentando di interpretare.
1 – Se la frammentazione del mercato mondiale è certificata dalla cronaca quotidiana, sapendo chiaramente che siamo all’inizio di questo percorso, avremo diversi effetti su cui soffermarci nell’analisi sulle prospettive e nella riflessione politica.
a. Il primo è una regressione degli scambi commerciali e della crescita in quanto la circolazione delle merci tende a ritrarsi nei blocchi economici in via di costituzione. Con il risultato da una parte di contenere la dimensione degli scambi e dall’altra a costringerli tendenzialmente nei blocchi economici in formazione, accentuando in tal modo le differenze e le dinamiche tra i singoli blocchi.
b. La frammentazione si riversa già da ora sulle filiere produttive internazionali createsi nella fase espansiva. Questo significa dare vita a filiere comprese nelle aree economiche e specificamente per i paesi occidentali avviare processi di ristrutturazione non indifferenti con ricadute sui lavoratori, sull’occupazione ed anche sui prezzi dato che l’inflazione attuale è da importazioni.
c. A questi processi se ne affianca un altro che è quello della equiparazione mondiale dei salari. La delocalizzazione si è basata sul differenziale del costo del lavoro, così lo sviluppo delle ex periferie produttive, a cominciare dalla Cina, ed il ruolo che il conflitto di classe svolge in quelle aree, nelle sue molteplici forme, ha portato ad un aumento dei salari. Non a caso in quei paesi si ha una crescita delle classi medie mentre nei centri imperialisti la tendenza è stata quella della riduzione salariale.
Tale tendenza verrà ulteriormente accentuata dal rientro delle produzioni in quanto per sostenere la competizione interna ed esterna alle aree economiche si agirà sulla automazione/composizione organica del capitale e sulla precarizzazione/fluidificazione della Forza lavoro.
2 – Sul piano finanziario gli effetti della frammentazione le tendenze già registrate nel decennio passato, nel periodo da noi definito “lo stallo degli imperialismi”, si accentueranno ovvero il dollaro diverrà sempre meno la moneta di riserva internazionale perché è lo strumento principale con cui gli USA hanno esercitato il cosiddetto “signoraggio”, cioè il comando imperialista.
In questo senso la cronaca giornalistica ci dice della moltiplicazione degli scambi commerciali che usano monete diverse dal dollaro; l’erosione da questo subita è ancora parziale ma se consideriamo che il conflitto esplicito su questo terreno è appena agli inizi è difficile immaginarsi una inversione di tendenza in cui il dollaro possa riconquistare gli spazi perduti.
3 – Una ulteriore modifica delle condizioni esistenti viene dalla ripresa di inflazione da costi, dovuta appunto all’incremento della competizione, e dal rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali che rendono difficile una effettiva ripresa economica e appesantiscono il debito pubblico degli Stati.
Va detto che questa condizione riguarda in particolare i paesi imperialisti del blocco euroatlantico e quelli subalterni all’occidente dipendenti dal dollaro e dall’euro, mentre gli altri blocchi praticano politiche diverse di rilancio dell’economia usufruendo del non dismesso ruolo dello Stato lasciandogli una funzione politica economica effettiva.
4 – Dall’insieme dei fattori elencati emerge una differenza tra i principali blocchi in competizione, quello Euroatlantico e quello Euroasiatico, in quanto il secondo ha potenzialità di crescita maggiore relative a una popolazione molto grande ed una forza lavoro disponibile e con aspettative di crescita, disponibilità di materie prime, da quelle energetiche alle cosiddette terre rare, livello scientifico e tecnologico se non pari all’occidente molto vicino a questo e con potenzialità di sviluppo ancora ampie. Ma anche sul piano militare il potenziale atomico distruttivo è praticamente uguale grazie all’apporto della Russia e non solo.
Inoltre questo blocco non ha il problema di trovare una identità ideologica che divenga un elemento fondante di unità strategica come avviene nell’ambito NATO, il dato che prevale è quello della relazione economica in autonomia dall’occidente, e con questo in competizione, senza interferire sugli assetti politici interni ad ogni singolo paese.
5 – Sul piano della tenuta interna il blocco Euroatlantico presenta più contraddizioni in quanto da una parte rimane la competizione economica tra USA e UE, che si intravvede anche nella “contesa” tra dollaro ed euro praticata dalle rispettive banche centrali e nelle manovre protezioniste degli USA con il varo dell’IRA, certo con una disparità di forza politico-militare ma con una dialettica tra le due potenze in cui prevarrà una continua contrattazione interna tra le potenze piuttosto che un conflitto frontale.
Sintomatico è il comportamento dell’Inghilterra post Brexit che aveva concepito la propria uscita dalla UE in competizione con questa per divenire interlocutore privilegiato degli USA. Oggi dove la necessità diviene quella di difendere l’Occidente dalla “barbarie” quel paese si trova a dover fare una rapida marcia indietro dovendo di nuovo fare i conti con la UE.
Inoltre questo blocco essendo pienamente imperialista deve mantenere il controllo economico, finanziario e politico su due aree del mondo in ebollizione e trasformazione che sono in particolare l’America Latina e l’Africa. Questo è un dato fondamentale sia sul piano geopolitico che sul piano del conflitto di classe infatti è in queste aree dove la rottura politica, anche di tipo socialista, appare potenzialmente più possibile.
In Europa e negli USA le classi dirigenti stanno assumendo un carattere sempre più reazionario con l’intensificazione della lotta di classe “dall’alto” che mira al frazionamento sempre più spinto della classe lavoratrice, all’attacco alla sovranità politica limitando sempre più la democrazia ed esercitando un controllo culturale e comunicativo totalizzante, dimostrando implicitamente di avere coscienza della loro debolezza strutturale e strategica.
6 – Anche sulla questione ambientale la situazione è cambiata in quanto la crisi energetica ha fatto cadere velocemente l’ideologia “green”, di cui si stavano rivestendo le classi dirigenti occidentali, riciclando materialmente ed ideologicamente il carbone, il fossile e l’energia nucleare divenuta improvvisamente “ecologica”.
La stessa Greta Thumberg da icona dell’ambientalismo europeista è stata costretta a divenire una “contestatrice” fermata dalla polizia tedesca.
Questo ha fatto cadere anche quei movimenti gonfiati ad arte negli ultimi anni dai media mainstream che dovevano essere il supporto ideologico alle politiche neoliberiste, in particolare di quelle della UE che si spacciava per essere la più ecologista.
Il salto storico che sta vivendo il mondo produce quella che abbiamo definito la frammentazione del mercato globale comunque caratterizzato dal Modo di Produzione Capitalista, ma questa evoluzione sta mandando in “panne” gli imperialismi storici egemoni.
Infatti la produzione dislocata a livello mondiale fin dagli anni ‘90, sia quella più arretrata dei manufatti che quella tecnologica, ha avuto un sottoprodotto dannoso per i centri imperialisti in quanto ha certamente dato un forte impulso nel trentennio trascorso allo sviluppo delle forze produttive sotto il segno del Capitale.
Per contrasto ha altresì determinato anche una crescita quantitativa e qualitativa delle ex periferie produttive facendole diventare competitive per quei paesi e multinazionali che hanno generato la mondializzazione della produzione capitalista.
Questa dinamica inoltre produce una ulteriore problematicità in quanto quello sviluppo è avvenuto certo grazie alle multinazionali private ma con la copertura di Stati Nazionali, quali ad esempio la Cina, che sono stati il prodotto della decolonizzazione o delle rivoluzioni del ‘900.
Cina, Vietnam, paesi arabi nella loro ampia articolazione, i paesi dell’Africa meridionale di fronte alla sconfitta del mondo socialista hanno da una parte preso atto della nuova condizione accettando relazioni economiche internazionali da loro in precedenza combattute, ma dall’altra hanno mantenuto la “memoria storica” dello sfruttamento coloniale ed imperialista salvaguardando una propria identità che ora di fronte alle difficoltà USA riemerge con forza.
Cosa che sta accadendo anche in America Latina, funestata e immiserita dai golpe militari sostenuti dagli statunitensi nei decenni ’70 e ’80, assumendo le forme classiche dello scontro di classe del ‘900, del movimento operaio e socialista/comunista e antimperialista. Ma anche con Stati importanti che manifestano una forte autonomia nei confronti degli yankee.
A questo “scatto di orgoglio” e di indipendenza nazionale ha certamente contribuito il feroce e continuato interventismo militare USA/NATO/UE che ha prodotto già dagli anni ’90 devastazione e morte in molte parti del mondo a cominciare dalla Jugoslavia che non era certo un paese satellite dell’URSS.
Ciò ha confermato il detto che “il Lupo perde il pelo ma non il vizio”, per questo oggi la necessità di indipendenza riemerge proprio in quei paesi che si riteneva fossero ormai subalterni alle esigenze dell’occidente capitalista.
La fuga dall’Afghanistan, la mancata stabilizzazione dell’Iraq e della Libia, la sconfitta in Siria e la tenuta dell’Iran hanno plasticamente dimostrato l’impossibilità per l’occidente di mantenere l’egemonia di un mondo complesso che andava assumendo una dimensione al di fuori delle sue possibilità materiali di controllo.
Certamente rimane ancora la possibilità di una guerra generalizzata che però è resa improbabile dall’esistenza di armi nucleari e di tecnologie missilistiche che possono colpire ovunque; perciò la diffusione dello sviluppo scientifico e tecnologico prodotto dall’occidente con la rivoluzione informatica oggi garantisce a tutti la reciproca distruzione molto più dell’era bipolare del ‘900. La reazione avuta dagli anni ’90 dalla Corea del Nord di fronte al rischio di un intervento militare USA con il proprio riarmo nucleare ha mostrato l’impotenza occidentale di fronte alla crescita di una minaccia militare concreta.
In base alle analisi fatte sia di tipo strutturale che geopolitiche, se corrette, possiamo ragionare sulle prospettive quantomeno per scenari probabili. Non è irrealistico ipotizzare la configurazione di due principali aree macroeconomiche e politico militari che si possono definire come Euroatlantica ed Euroasiatica in competizione tra di loro, anche se con relazioni interne diversificate.
Quella Euroatlantica a trazione statunitense ma con un ruolo unitario della UE, sebbene con contraddizioni interne, è più coesa politicamente ma con contraddizioni strutturali quali quella tra Dollaro ed Euro che riemerge periodicamente e quella produttiva come sta a dimostrare l’approvazione dell’IRA negli USA, legge fatta a difesa dell’apparato industriale americano contro anche quello europeo.
Mentre nella macroarea Euroasiatica esiste una complementarità strutturale con maggiori potenzialità di crescita e dove l’unico elemento geopolitico unitario, per ora, è l’opposizione alle ingerenze occidentali.
Ma la frammentazione del mercato va oltre questi due centri principali e determina altri “centri di gravità” quali quello dei paesi arabi attorno all’Arabia Saudita, dell’Africa meridionale e si intravvede anche quello dell’America Latina che sta sganciandosi politicamente e economicamente dagli USA.
Questa modifica delle condizioni generali investe anche noi in quanto i comunisti ed il movimento di classe in generale deve fare i conti con le dinamiche e prospettive di quella che abbiamo definito area Euroatlantica a partire da una analisi delle sue condizioni e contraddizioni che, in un contesto di perdita o riduzione di egemonia, tenderanno ad aumentare.
Su questo è bene individuare con maggiore precisione possibile le contraddizioni su cui ipotizzare una ripresa del conflitto di classe in occidente, dall’alto e dal basso, ed anche nel nostro paese collocato nella UE.
Indubbiamente la rottura delle filiere internazionali e la conseguente riduzione del commercio internazionale ridimensiona tendenzialmente il mercato alla sola area Euroatlantica intesa in senso largo avvero USA, UE, America latina, Africa e parti dell’Asia dell’estremo oriente, cioè alle aree di interesse strategico dell’imperialismo dato anche il fallimento strategico in Asia.
L’ambito più “ristretto” che si va determinando, anche attraverso l’uso di sanzioni e dazi, riproducendo uno scenario simile a quello precedente alla prima guerra mondiale, contiene mercati maturi e saturi come quelli che vanno dagli USA all’Europa ed al Giappone.
Tale condizione di difficoltà di crescita assoluta rimanda alla necessità di grandi processi di ristrutturazione produttiva, finanziaria e commerciale per ricostituire margini di plusvalore relativo possibili solo con l’aumento della composizione organica di capitale.
Questo è esattamente quello che sta accadendo con il tentativo di cambiare il “paradigma” dalla produzione basata sul fossile a quello sulle energie rinnovabili, insomma avviare una fase di “distruzione creativa” di tutto l’assetto economico, classico tentativo di risoluzione dei problemi del capitalismo in assenza di possibilità della distruzione materiale tramite guerra. Che poi ci si riesca per davvero è tutt’altra cosa, vista anche la marcia indietro fatta sul carbone e sul nucleare “ecologico” e la competizione sulla ricerca di fonti di energia fossile.
In termini di classe questo processo di ricostruzione dei margini di profitti ha costi pesanti di cui se ne intravvedono oggi solo gli scenari possibili in quanto siamo all’inizio di un nuova fase non solo generale ma anche del conflitto di classe. Qui rimandiamo alla funzione/conflitto propria del MPC come illustrato precedentemente.
Riduzione dei salari, precarizzazione e ulteriore riduzione delle tutele sul lavoro, debito pubblico arrivato a livelli mai visti prima e ulteriori tagli alla spesa sociale e privatizzazioni, inflazione da costi e non da domanda, ulteriori strette politiche autoritarie sul piano della democrazia sono tutte tendenze che già si intravvedono ma che cresceranno in modo direttamente proporzionale alle difficoltà di mantenere un ruolo egemone nel mondo.
Naturalmente tutto questo non produrrà immediatamente una risposta politica della classe con cui poter organizzare un movimento politico effettivo di rottura in quanto la risposta delle masse sarà condizionata dal peso della ideologia dominante e dalla scomposizione produttiva e sociale che è stata prodotta proprio per impedire il conflitto nel cuore dei paesi imperialisti.
Se nel nord dell’area Euroatlantica la situazione è questa sopradescritta, ben diverse sono le condizioni nel suo quadrante meridionale dove i conflitti politici e militari tendono a moltiplicarsi, a cominciare da quelli in Africa dove lo scontro sta generalizzandosi con l’influenza della Cina e della Russia, sia politico-militare che economica, e dove il Sudafrica manifesta una sua autonomia che la rende in tutta quell’area un nuovo polo di riferimento nella frammentazione.
Molto più significativi sono i processi che si stanno manifestando in America Latina in forme variegate che rimettono comunque in discussione nel “cortile di casa” il potere USA. Dalle esperienze direttamente rivoluzionarie come Cuba e Venezuela a tutte le altre “gradazioni” di socialismo e progressismo che si vanno a manifestare nelle diverse tornate elettorali del continente ci dicono che nulla sarà come prima anche se i tentativi di colpi di stato, come quello fatto in Bolivia e poi sconfitto, non sono affatto esclusi.
Insomma la “Nuestra America” pur non passando attraverso la “guerra di guerriglia”, come tentato negli anni ’60 dal Che Guevara, sta gradualmente divenendo una realtà a dispetto degli Stati Uniti.
In sintesi si può manifestare uno scenario in cui la competizione economico-monetaria con le altre aree del globo, una crisi sociale di lungo periodo nei centri imperialisti, una difficoltà a perpetuare il controllo su aree che sono state sempre oggetto di sfruttamento, la difficoltà ad imporre un conflitto militare nucleare in cui la vittoria non è scontata fanno intravvedere una lunga fase declinante dell’occidente capitalistico dentro la quale i comunisti, il movimento di classe e quello democratico possono risalire la china a condizione di individuare con più chiarezza quale ruolo svolgere in questo nuovo contesto storico.
Tra tutte queste contraddizioni in essere quella che ha un carattere potenzialmente rivoluzionario nel senso della rottura dell’egemonia imperialista è quella che nasce dall’Africa e dall’America Latina dove il conflitto non è mediato da una capacità di recupero delle classi dominanti, come avviene negli USA e nella UE, ma è diretto e non solo politico e sociale ma anche militare.
In questi ambiti si sta riproducendo la lotta di classe degli sfruttati e la lotta antimperialista dei popoli che l’occidente vuole ancora sottomessi. E’ da questo livello della contraddizione che possono emergere indicazioni anche per chi lotta per il cambiamento sociale nel cuore dei paesi imperialisti.
Certamente rottura e cambiamento sociale, non come possibilità ma come necessità immanente, cresceranno in parallelo ad una crisi del modello di società non più in grado di orientare in modo progressivo ed egemonico le potenze oggettive messe in moto da essa stessa.
Crisi economico-finanziaria, crisi sociale e crisi ambientale possono essere affrontate solo avendo come obiettivo politico esplicito la necessità del cambiamento sociale, del superamento del capitalismo, del socialismo.
Le ambiguità, il soffermarsi ancora su ipotesi politiche tattiche, che però vengono continuamente superate dal manifestarsi delle contraddizioni epocali del MPC, rendono impossibile anche il solo concepimento di una alternativa sociale.
Ciò significa impegnarsi per ridare forza e progettualità generale all’organizzazione della classe intesa nella sua attuale ampia articolazione, certo modificata per caratteristiche e funzioni produttive ma pur sempre in relazione subalterna ad un capitalismo che assume forme sempre più regressive per tutta la società.
In questo senso il ritorno della guerra non come “interventi umanitari” ma come scontro tra grandi potenze che hanno a disposizione anche le armi nucleari è il sintomo che la crisi del modo di produzione è effettiva, profonda e ormai con esiti incerti per tutta l’umanità.
La lotta contro la guerra e contro i poteri economico-finanziari che comprimono sempre più le libertà democratiche devono essere i caratteri costituenti delle forze che si vogliono contrapporre alla deriva di uno sviluppo che sembra segnare il proprio limite storico.
Se questa non può che essere la direzione di marcia delle forze che si vogliono opporre non possiamo comunque dimenticare che la minaccia di una guerra nucleare è molto più presente di quanto fosse stata anche nei momenti peggiori della guerra fredda ma che ora può trasformarsi in guerra effettiva dagli esiti drammatici.
Fin qui abbiamo voluto tracciare una chiave di lettura generale, definire una cornice rinviando alle successive quattro relazioni delle diverse sessioni, sul MPC,sullo scontro internazionale, sulla composizione di classe e sulla crisi degli USA e della UE, gli approfondimenti per cominciare a “scavare” sugli scenari futuri che condizioneranno la prospettive generali ma anche l’azione dei comunisti, delle forze di classe e democratiche che verranno investite e modificate esse stesse dalle evoluzioni che qui cerchiamo di interpretare .
1 Marzo 2023